Benjamin Netanyahu e Barack Obama (foto LaPresse)

Così Obama guida la ritorsione dell'Onu contro Netanyahu

Da tempo l’Amministrazione lavora a un piano strategico su due fronti per contrastare la linea del primo ministro: da una parte la velata minaccia di ridurre gli aiuti militari, dall’altra l’opposizione secca a qualunque soluzione del conflitto che non preveda la nascita dello stato palestinese.

New York. Alcune fonti diplomatiche sentite dal giornale Foreign Policy dicono che gli americani stanno prendendo in considerazione il voto a una mozione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il riconoscimento dello stato palestinese. E’ la risposta americana – per il momento ufficiosa – alla vittoria elettorale del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che poco prima del voto ha cambiato linea sulla soluzione a due stati, promettendo che sotto la sua guida non verrà riconosciuto uno stato palestinese. A brevissimo giro di posta, anonimi funzionari della Casa Bianca e del dipartimento di stato hanno fatto circolare lo stesso messaggio presso le redazioni di quotidiani israeliani e americani. Lo spiffero diplomatico raccolto dalle parti del Palazzo di vetro si è svelato per quello che era: il tassello di una strutturata offensiva politica dell’Amministrazione americana contro Netanyahu.

 

John Kerry ha telefonato a Bibi per congratularsi, ma la portavoce di Foggy Bottom, Jen Psaki, ha chiarito immediatamente che si è trattato di una conversazione protocollare, e i due hanno sorvolato sulla sostanza politica; nel frattempo John Earnest, portavoce della Casa Bianca, ha spiegato che Barack Obama sostiene ancora la soluzione a due stati, e visto il cambio in corsa di Bibi dovrà “rivalutare” la posizione degli Stati Uniti sul processo di pace. Per rincarare la dose ha attaccato direttamente le dichiarazioni del Likud sugli arabo-israeliani: “Profondamente preoccupanti e divisive, e posso dirvi che l’Amministrazione intende comunicare direttamente agli israeliani queste cose”.

 

La ritorsione di Obama contro l’alleato indigesto si prepara a Washington ma si materializza a New York, nella cavernosa aula del Consiglio di sicurezza dove i diplomatici americani hanno fin qui ostacolato le ambizioni dell’Autorità nazionale palestinese. Il piano strategico era già pronto. Poco prima delle elezioni di questa settimana in Israele, scrive Foreign Policy, gli Stati Uniti hanno informato i diplomatici alleati che avrebbero bloccato qualunque risoluzione onusiana contro Israele nel caso Isaac Herzog avesse vinto le elezioni. Ma hanno fatto anche sapere che una vittoria di Netanyahu a capo di un governo di coalizione contrario alla soluzione a due stati avrebbe fatto cambiare i calcoli, e gli Stati Uniti avrebbero aperto all’ipotesi di una risoluzione pro palestinese. Fonti della Casa Bianca raccolte dal New York Times dicono che il piano potrebbe basarsi sui confini del 1967, con uno scambio di territori concordato. All’Onu non c’è ancora una bozza approvata dagli americani, ma la macchina diplomatica si sta muovendo per fissare scadenze e stabilire quelle “red line” che Obama traccia più volentieri davanti ai piedi degli alleati che a quelli degli avversari.

 

Ieri nella sua prima intervista post-elettorale, alla Nbc, Netanyahu ha cercato di allentare un minimo la tensione con una piroetta politica: “Non voglio una soluzione con uno stato solo. Voglio una soluzione sostenibile con due stati, ma le condizioni devono cambiare”. Poi, parlando più al popolo americano che ai palazzi di Washington, ha ripetuto il mantra dell’alleanza incorruttibile fra paesi predestinati: “Israele e Stati Uniti possono avere delle divergenze ma restano uniti su molti fronti”. Nelle ultime settimane l’Amministrazione ha fatto circolare la voce che un nuovo piano per il processo di pace fosse già in lavorazione, un piano che tenderebbe a ridurre il potere negoziale di Netanyahu paventando una riduzione degli aiuti militari dai quali Israele dipende. Durante (e immediatamente dopo) l’ultima operazione militare a Gaza, gli americani, contrariati per il raggio e l’ampiezza dell’offensiva, hanno rallentato il flusso dei rifornimenti bellici, cosa che non è passata inosservata a Gerusalemme. A questa forma di pressione diretta ora Obama aggiunge una più felpata manovra onusiana, il che mette in luce anche la sua debolezza rispetto a Netanyahu negli ingranaggi politici di Washington. Il primo ministro è immensamente popolare presso il Congresso a maggioranza repubblicana, e un fronte trasversale di falchi è perfettamente allineato con la sua posizione rapace quando si tratta del Grand Bargain nucleare promosso dall’Amministrazione Obama. Quando ha fatto il suo discorso al Congresso, Netanyahu ha ricevuto quello che il comico Jon Stewart ha definito “the longest blowjob a Jewish man has ever received”, e non c’è bisogno di tradurre. Mentre i lobbisti dell’Aipac lavoravano sui parlamentari più freddi, i sondaggisti hanno rilevato indici di gradimento di Netanyahu presso il pubblico americano che Obama può soltanto sognare.

 

Il superinviato anti Bibi

Per trovare partner affidabili nella strategia del dissenso anti Netanyahu, Obama va a pescare dunque nella Turtle Bay, dove gli attori pronti a puntellare la causa palestinese con una mozione ufficiale non sono mai mancati. I palestinesi sono subito saltati sul carro: “Il fatto che il governo israeliano opponga pubblicamente la soluzione a due stati rafforza l’idea che il conflitto debba essere risolto dalla comunità internazionale”, ha detto Maen Rashid Areikat, capo della diplomazia palestinese all’Onu. Al dipartimento di stato si esercitano con circonlocuzioni inedite per lasciare intendere che il veto ferreo a qualunque riconoscimento palestinese potrebbe cadere. “Più il nuovo governo israeliano si sposta a destra più è probabile che qualcosa succeda a New York”, dice un diplomatico occidentale a Foreign Policy. Per ungere meglio il meccanismo offensivo, al quale la Casa Bianca lavora evidentemente da tempo, Obama ha affidato l’incarico di superinviato per medio oriente, Africa e Golfo persico a Robert Malley, avvocato e politologo che nel 2008 è stato allontanato dal team della campagna elettorale di Obama per le sue posizioni pericolosamente vicine a Hamas. Malley è una delle voci più critiche verso le politiche di Israele nell’entourage dell’Amministrazione, e le critiche si fanno ancora più acute quando si tratta di Netanyahu e della sua coalizione di governo inevitabilmente sbilanciata a destra.

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