Il “modello Yemen”
Premessa personale. Nel gennaio 2011 ero in Yemen per studiare pochi mesi in un istituto della capitale Sana’a e ricordo che uno dei primi giorni le forze di sicurezza quasi paralizzarono la città: strade deserte che di solito erano trafficatissime, militari armati a ogni incrocio, blindati con le armi ad alzo zero, era chiaro che stava succedendo qualcosa di anomalo. C’era Hillary Clinton in visita ufficiale, allora era capo del dipartimento di stato americano e lo scopo del suo arrivo lampo era quello di stringere meglio il legame con il presidente Ali Abdullah Saleh, il “figlio di puttana” locale – e tutto nel giro di circa tre ore. Arrivo e partenza. S’intende che “figlio di puttana” non è un insulto gratuito contro il permalosissimo rais Saleh ma è una citazione della frase attribuita al presidente americano Franklin Delano Roosevelt a proposito del dittatore messicano Somoza: “E’ un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”, che descrive la tendenza della politica estera a delegare la sicurezza di un’area a un alleato locale, e di solito il prezzo di questa collaborazione è chiudere un occhio sui suoi peccati minori nel campo dei diritti umani (minori per chi sta fuori dal paese, evidentemente). Sana’a era considerata una zona controllata, ma era pur sempre soltanto una bolla di sicurezza in mezzo a un territorio con una cospicua presenza di al Qaida, da cui il nervosismo dell’esercito yemenita. Tredici mesi prima c’era stato un attentato spettacolare fallito su un aereo di linea americano, un passeggero dallo Yemen aveva provato a fare esplodere una bomba nascosta nei suoi pantaloni durante la discesa su Detroit, ma era soltanto bruciata la carica di detonazione e il risultato era stato tragicomico. A ottobre c’era stato il caso delle bombe da trecento chilogrammi nascoste dentro le stampanti, sempre per abbattere aerei di linea. In ogni caso, Clinton passava in città per andare a cementare il rapporto locale: senza sapere che in Yemen da lì a un paio di settimane sarebbe scoppiata la rivoluzione, prima sotto forma di proteste e pestaggi all’università e poi in forma serissima con la calata dei clan sulla capitale. La rivolta era già in corso in Tunisia, presto sarebbe scoppiata in Egitto e poi anche in Libia – e gli yemeniti alla sera stavano davanti al canale al Jazeera a guardare la televisione e di giorno, nelle classi dell’istituto, si citavano i versi di Abu Qasim al Shabi, il poeta tunisino diventato un classico delle rivoluzioni arabe:
“Se un giorno il popolo sceglierà la vita
allora il fato non potrà che rispondere
e la notte sarà obbligata a dissolversi
e le catene certamente si spezzeranno e cadranno”.
Clinton stava andando a rinnovare un patto antiterrorismo che valeva miliardi di dollari in equipaggiamento e finanziamenti con un governo arabo che stava per barcollare e che avrebbe passato i mesi successivi a tentare di restare in piedi molto più che a combattere al Qaida. Il presidente Saleh poi non è più caduto, ma è stato ferito in un intrigo di palazzo e poi è stato rimpiazzato dal vice Abd Rabbu Mansour Hadi grazie a un accordo di potere davvero gracile che non è sopravvissuto all’avanzata da nord dei ribelli Houthi.
Il capolavoro di lungimiranza di Washington doveva ancora arrivare. Il 10 giugno 2014 il presidente americano Barack Obama parlò con i giornalisti a proposito di quello che stava accadendo in Iraq, dove lo Stato islamico aveva appena preso la seconda città del paese, Mosul, assieme ad altre ampie porzioni di territorio. Obama disse:
“Guardate cosa succede in un paese come lo Yemen – un paese molto povero che ha divisioni sia etniche sia settarie – là noi abbiamo davvero partner impegnati, il presidente Hadi e il suo governo. E siamo riusciti ad aiutare lo sviluppo delle loro capacità senza inviare un gran numero di truppe di terra americane. E allo stesso tempo abbiamo abbastanza capacità di Ct, di controterrorismo, da poter dare la caccia alla gente che volesse colpire la nostra ambasciata o che volesse provare a esportare terrorismo in Europa o negli Stati Uniti. E capire come creare altri modelli di questo genere sarà parte della soluzione sia in Siria sia in Iraq. Ma per fare questo abbiamo bisogno di avere un governo vero sul posto con cui possiamo stringere una partnership e in cui avere fiducia che seguirà una politica inclusiva, in cui siano tutti rappresentati – in Yemen per esempio il dialogo nazionale ha preso molto tempo ma sta dando alla gente il senso di avere una rappresentanza politica adeguata che risponde a ogni loro richiesta”.
Il 19 settembre Obama tornò a spiegare la sua politica in Iraq e Siria perché era cominciata la campagna di bombardamenti e di nuovo citò lo Yemen come modello di successo:
“Questa campagna antiterrorismo sarà fatta con sforzo incessante, per eliminare lo Stato islamico dovunque si trovi, usando la nostra potenza aerea e il nostro appoggio alle forze alleate a terra. Questa strategia di eliminare i terroristi che ci minacciano e di aiutare gli alleati mentre sono sulla linea del fronte l’abbiamo già seguita per anni con successo in Yemen e Somalia”.
I giornalisti notarono con sarcasmo che se il modello di successo era lo Yemen, allora davvero l’Iraq si trovava in guai seri, ma non c’era ancora una percezione di cosa stava per succedere. Dopo quel discorso un ostaggio americano è stato ucciso da al Qaida durante un raid fallito delle forze speciali americane, l’ambasciata americana a Sana’a è stata evacuata e ha chiuso le porte a tempo indeterminato, i ribelli Houthi (che ormai non ha più senso definire ribelli: controllano metà del paese) hanno preso la capitale.
Questa sequenza di eventi in Yemen ha accelerato negli ultimi quattro giorni. Gli Houthi sono arrivati fino a Taiz, che è una città molto a sud (quindi è una conquista molto in profondità, contando che sono partiti da Sadaa, all’estremo nord) ed è considerata il centro della cultura yemenita, l’anima della nazione. La gente di Taiz sta protestando da quattro giorni davanti al cancello della base militare che gli Houthi hanno trasformato nel loro comando, con scambi di sassate, sit-in e qualche colpo di kalashnikov. La prossima e ultima tappa nella marcia verso sud è Aden, che sta sulla costa ed è diventata la sede del governo provvisorio ed esule del presidente Hadi, fuggito dagli arresti domiciliari a Sana’a, si dice, grazie al fatto che le guardie Houthi erano assorte davanti a un film porno.
Venerdì lo Stato islamico ha fatto la sua apparizione con un doppio attentato in due moschee, è stata una strage da più di centoquaranta morti. Per mesi si è detto che il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi stava preparando il suo arrivo nel paese ai danni dei rivali di al Qaida, ma non ci si aspettava un esordio così visibile. L’istituto israeliano Memri, specializzato nel tradurre materiale antisemita prodotto in medio oriente, ha pubblicato il video che mostra cosa stavano cantando i presenti dentro una delle due moschee pochi secondi prima dell’esplosione:
“Morte all’America. Morte a Israele. Maledetti gli ebrei. Vittoria all’islam. Dio è il più grande. Morte all’America. Morte a Israele. Maledetti gli ebrei. Vittoria all’…”.
L’attentatore suicida dello Stato islamico si è fatto esplodere in mezzo a loro.
Due giorni fa centoventicinque uomini delle forze speciali americane hanno dovuto abbandonare la loro base vicino alla città di al Houtha, perché al Qaida si è avvicinata troppo – sfruttando il disordine generale – e sono andati via così in fretta che hanno lasciato sul posto tutto l’equipaggiamento e ora ci si chiede: di cosa si trattava? Le forze speciali inglesi ieri sono state portate via in aereo da Sana’a, nessuno sapeva che fossero ancora nella capitale ma adesso non importa più. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, che non conta nulla ma è citato come fonte di possibili titoli pronunciati con gravitas, conferma: “Il paese è sull’orlo della guerra civile”.
Ieri il Washington Post ha pubblicato un pezzo in cui spiega che il Pentagono non riesce a capire che fine ha fatto l’equipaggiamento militare che aveva mandato in Yemen dal 2007, del valore di circa cinquecento milioni di dollari, e che comprendeva tra l’altro più di un milione di munizioni per fucili d’assalto, quattro elicotteri, un aereo cargo da trasporto, piccoli droni da sorveglianza, un centinaio di blindati, visori notturni. “Lo consideriamo completamente andato, compromesso”, dice una fonte anonima al Post, che non chiarisce se il materiale è già stato saccheggiato o se nessuno riesce a capire dove si trova al momento. Sarebbe una storia incredibile (smarrire apparecchi da ricognizione), se ormai non fossimo perfettamente assuefatti al fatto che lo Stato islamico in Iraq e Siria circola normalmente su Humvee americani e su carri armati russi. Lo specialista del New York Times in materia di sicurezza nazionale, Eric Schmitt, scrive che l’evacuazione forzata delle squadre speciali americane (di consiglieri, come sono designati) dallo Yemen è il colpo più recente alla campagna antiterrorismo di Obama, che ha già sofferto sconfitte “significative” in Siria, Libia e altri paesi della regione. Il modello light di antiterrorismo, fatto di accordi locali e qualche colpo con i droni quando serve, appare oggi inadeguato – non che ci siano alternative più attraenti.
Se le cose vanno male gia ora, stanno imboccando una direzione pure peggiore. Ieri il giornale inglese Telegraph titolava: “Lo Yemen è il campo di battaglia tra Arabia Saudita e Iran”. Gli Houthi sono sciiti e sono aiutati dall’Iran, anzi le loro conquiste sono considerate un capolavoro, l’ennesimo del generale iraniano Qassem Suleimani, che è l’architetto della politica di Teheran in medio oriente, dalla Siria all’Iraq. Lui stesso scrisse in un messaggio destinato al generale americano David Petraeus in Iraq nel 2008 che diceva:
“Generale Petraeus, dovresti sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica iraniana in Iraq, Siria, Libvano, Gaza e Afghanistan”.
Ora lo Yemen è stato aggiunto alla lista. Gli Houthi sono quindi percepiti come una minaccia dai sauditi e ci sono tutti gli elementi per una guerra di religione come in Iraq e in Siria, soltanto che questa volta è nel cortile di casa (l’Arabia Saudita condivide un confine lungo millecinquecento chilometri con lo Yemen) e su una costa che affaccia sul passaggio di mare strategico che va verso Suez, e per questo la possibilità di una guerra per procura sono elevate. A dire il vero gli Houthi sono sciiti zaiditi e non sono sciiti del dodicesimo imam – non credono cioè nell’imam occulto che si nasconde in attesa di tornare e annunciare la fine dei tempi, come ci crede per fare un esempio l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. Tanto che sono considerati quasi sunniti, “veri musulmani” che però hanno preso un abbaglio, compagni che sbagliano. Ma questi sono sofismi che non fermeranno la guerra, nella propaganda estremista sunnita gli Houthi sono già chiamati rafidha, i rinnegati, o i majus – ovvero gli stranieri che vengono da oriente come i re magi.
Ieri il ministro degli Esteri saudita, Saud al Faisal, ha proposto negoziati di pace subito e poi ha avvertito che se falliranno ci sarà un non meglio specificato “intervento”. Sui giornali yemeniti si parla di azione militare della Forza Scudo – ovvero la Nato dei paesi arabi del Golfo – e anche il ministro degli Esteri dell’ormai deposto governo yemenita ieri ha chiesto l’intervento armato dei regni del Golfo e l’imposizione di una no-fly zone per bloccare gli Houthi (che hanno bombardato con gli aerei il palazzo dove pensano si trovi Hadi ad Aden). Scrive il Telegraph:
“I sauditi sono in rotta di collisione con i loro potenti vicini sciiti (l’Iran) fin da quando, dieci anni fa, è stato rivelato che gli ayatollah stavano lavorando a un programma clandestino per costruire armi nucleari. Acquisire la bomba atomica consentirebbe all’Iran di ottenere l’ambizione coltivata da tempo di reclamare la sua posizione come superpotenza regionale senza rivali, e quindi di intensificare i suoi sforzi per esportare i principi della rivoluzione iraniana ancora di più”.
Insomma, i sauditi sanno che se l’Iran ottiene l’atomica potrà esercitare un diritto di protezione imbattibile su chiunque e la situazione sarà irrimediabile: se in quel momento i loro Houthi controllano lo Yemen, potranno tenerselo senza temere di esserne sloggiati, perché avranno la potenza nucleare di Teheran alle spalle. Quindi, il regolamento di conti deve essere fatto prima.
Questa crisi in Yemen rispolvera il tema della tregua segreta tra il governo yemenita e al Qaida. Negli anni Novanta c’era una guerra tra il potere centrale di Sana’a e i separatisti dello Yemen del sud, una repubblica socialista con capitale Aden. Il governo a quel tempo usò al Qaida – che allora era un gruppo di estremisti formato in gran parte da reduci della guerra in Afghanistan – come una forza paramilitare per fare la guerra ai separatisti. Per farlo descrisse loro la guerra contro “gli infedeli socialisti” del sud come una continuazione in patria del jihad contro i comunisti sovietici in Afghanistan. Al Qaida non era ancora il gruppo dell’attacco a New York, ma nel 1992 aveva già colpito con una bomba un hotel di Aden che ospitava truppe americane di passaggio verso la Somalia. Scriveva nel 2007 Jane Novak, esperta americana di Yemen:
“Il fratellastro del presidente, il generale Ali Mohesn al Ahmar reclutava combattenti per Bin Laden negli anni Ottanta e allestiva campi di addestramento in Yemen. Dopo il ritiro dell’Unione sovietica dall’Afghanistan, il regime yemenita dette il benvenuto a migliaia di ‘Arabi afghani’ (il nome dato ai reduci) sia yemeniti sia non yemeniti, di ritorno in Yemen.
Alcuni di questi lealisti di Bin Laden che combatterono per Saleh nel 1994 sono oggi ufficiali di alto livello nelle forze militari e di sicurezza dello Yemen, ambasciatori, governatori. Di conseguenza, l’appoggio amministrativo clandestino per al Qaida è sostanziale, di varia forma e applicato a livelli multipli. Per tutti gli anni Novanta Osama bin Laden e Ayman al Zawahiri visitarono regolarmente lo Yemen, incontrando leader religiosi e altre figure di spicco. Bin Laden predicò anche in moschee yemenite ed ebbe pure un incontro di sei ore con il generale al Ahmar all’aeroporto di Sana’a nel 1996”.
Oggi il timore, ma è tutto soltanto ancora al livello di ipotesi, è che nasca una nuova tregua tra al Qaida e il governo – che questa volta però è rifugiato a sud. Con l’ulteriore e sostanziale differenza che ora c’è pure lo Stato islamico. Ghait Abdul Ahad, inviato inglese del Guardian di famiglia irachena che viaggia perfettamente tra gli arabi, ieri ha scritto un reportage dal sud dello Yemen titolato: “L’implosione yemenita spinge i sunniti nelle braccia di al Qaida e dello stato islamico”. Un avvocato gli confida:
“Nella mia zona c’erano cinque tizi che stavano con al Qaida, ora sono decine e non possiamo dire loro nulla. loro rispondono che ci stanno difendendo dagli Houthi”.
Un jihadista dice però all’inviato che al Qaida non basta, con questa citazione che allude a una possibile deriva, per ora lontana nel tempo, ma ormai dal 2011 è bene esercitarsi a pensare agli scenari possibili:
“Al Qaida ha fallito e non ha protetto i sunniti dello Yemen. Dove sono? Perché stanno permettendo agli Houthi di avanzare? Gli attacchi colpisci e fuggi hanno fallito, dobbiamo fondare uno stato, come in Iraq e Siria, per avere terra e confini da difendere”.