Il sogno violato della Nigeria
La Nigeria è una democrazia giovane e i nigeriani hanno una gran voglia di andare a votare. La crisi della sicurezza, con Boko Haram che si è mangiato un gran pezzo di nord con la sua furia islamista, la diseguaglianza sociale, determinata da una crescita gloriosa quanto tumultuosa, e la mancanza di fiducia nelle istituzioni corrotte da anni di strapotere e soldi facili preoccupano gli elettori ma non li rendono né annoiati né disillusi (noia e disillusione sono roba da democrazie anziane): secondo Pew Research, 7 nigeriani su 10 andranno a votare alle elezioni di sabato, convinti di poter imporre un cambiamento. Che, nel caso della Nigeria, riguarda l’alternanza al People’s Democratic Party (Pdp), di cui l’attuale presidente Goodluck Jonathan è esponente, che vince le elezioni incontrastato dal 1999, anno di nascita della democrazia nigeriana moderna. A sfidare lo strapotere del Pdp c’è “l’inflessibile” Muhammadu Buhari dell’All Progressives Congress, un generale che ha già guidato il paese con un governo militare per una ventina di mesi tra il 1984 e il 1985, ed è già stato battuto due volte alle elezioni – ha 72 anni, ma c’è chi riesce comunque a definirlo un possibile “comeback kid”.
Le elezioni in Nigeria, previste per il 14 febbraio scorso e rimandate per ragioni di sicurezza, non riguardano soltanto i nigeriani. Perché questa è la più grande economia dell’Africa, perché la Nigeria è una grande produttrice di petrolio, e perché cova nel suo nord radicalizzato un Califfato, quello di Boko Haram, che si ispira allo Stato islamico, utilizzando una simile propaganda spietata (pure se con mezzi meno sofisticati), facendo stragi di cristiani ma anche di moltissimi musulmani, inneggiando al jihad globale e utilizzando come metodo quasi esclusivo di reclutamento il rapimento. Ieri sul Washington Post Terrence McCoy ha spiegato che cosa succede alle centinaia di persone rapite da Boko Haram – l’ultimo rapimento di massa è di due giorni fa a Damasak, vicino al confine con il Niger, 500 persone, per lo più donne e bambini, che vanno a sommarsi alle famose duecento ragazze della scuola di Chibok, rapite nell’aprile dell’anno scorso e mai più ritrovate nonostante l’attivismo via hashtag, e a tante altre razzie che non hanno trovato riscontro sui media internazionali: dal 2013 a oggi, sarebbero state rapite circa 2.500 persone, è una stima naturalmente. Gli uomini diventano con la forza combattenti dell’esercito di Boko Haram, le donne vengono date in sposa o schiavizzate – e in questo termine, schiavizzate, c’è tutta la tragedia di un paese che per secoli è stato il bacino privilegiato degli schiavi da mandare oltremare – e quando non sono più utili allo scopo diventano bombe umane da far saltare contro gli infedeli (secondo la France Presse, molte donne sono state uccise durante le offensive dei soldati nigeriani per evitare che tornassero alle loro case e si sposassero con soldati e altri infedeli). I bambini, tantissimi, molti non hanno nemmeno dieci anni, vengono infilati nelle madrasse, indottrinati, addestrati all’utilizzo delle armi, o riempiti di esplosivo, a seconda delle esigenze tattiche del leader di Boko Haram, lo spaventoso Abubakar Shekau.
Negli ultimi due anni Boko Haram ha conquistato buona parte del nord del paese, controlla un’area grande quanto il Belgio, ha diminuito gli attacchi contro le chiese, anche al sud, che necessitavano di un minimo di training militare, e si è specializzato nella razzia e nella propaganda, soprattutto nell’avanzare territorialmente, per poter issare le proprie bandiere su villaggi e campagne e dimostrare al governo nigeriano e ai mentori dello Stato islamico di avere tutto il diritto di potersi definire un Califfato. Nelle ultime settimane, dopo che le elezioni sono state posticipate, l’esercito nigeriano, con il sostegno delle truppe dei paesi confinanti, il Ciad, il Niger, il Camerun, i vicini poveri, che si sono ritrovati sotto attacco dopo che Boko Haram ha iniziato a sconfinare, è riuscito a ottenere qualche successo. I maligni dicono che sia una manovra elettorale di Jonathan, che era dato per perdente al voto di febbraio e che ha utilizzato questi giorni per spezzare il momentum del suo avversario: il suo obiettivo, ha scritto sul New York Times Jean Herskovits, un professore che racconta e spiega la Nigeria dagli anni Settanta, “non è proteggere la popolazione, ma rimanere al potere”. I dubbi sull’operato del presidente sono molti, il governo ha spesso detto di non avere la struttura per combattere il gruppo terroristico, mancano le armi e le munizioni, ma dal 2010 a oggi un quarto del budget federale è stato allocato per le spese militari. Dove sono andati a finire questi fondi? Nonostante Jonathan sia stato considerato finora l’unico interlocutore dalla comunità internazionale, c’è stata parecchia riluttanza, per usare un eufemismo, nel fornire aiuti esterni alla lotta a Boko Haram (si era già visto quando l’anno scorso si dovevano cercare le studentesse, c’era una grande urgenza di ritrovarle, ma i paesi occidentali, soprattutto l’America, temevano di dare tecnologie troppo sofisticate a un esercito dalla dubbia credibilità, e così le ragazze non sono mai più state trovate). I soldati in effetti non hanno combattuto per molto tempo. Scappavano. Per paura, per connivenza, non si sa, si presume entrambe le cose. Ma l’offensiva nei confronti degli islamisti è diventata in qualche modo efficace soltanto quando anche i paesi confinanti hanno deciso di prendere la regia delle operazioni, e quando Jonathan ha capito che la sua poltrona era decisamente in bilico. Si è affrettato, in questi ultimi giorni, Jonathan. Ha riconquistato alcune città, ha sigillato i confini, ha mostrato la sua forza: li sconfiggeremo, ha ripetuto. E così sui media internazionali si è avuta la sensazione che Boko Haram stesse davvero indietreggiando, che stesse davvero subendo sconfitte gravi, tanto siamo speranzosi qui in occidente del fatto che queste bolle di islamismo feroce possano implodere bene e in fretta (anche lo Stato islamico arretra, giusto?). Poi il rapimento di massa di altri 500 nigeriani ha fatto pensare che forse la fretta di Jonathan di levarsi il problema di torno è diventata anche la nostra, ma la bolla è integra. Di più: i vicini poveri hanno condotto le operazioni più di successo, nessun soldato nigeriano era presente in buona parte dei villaggi liberati, e il governo sta arruolando mercenari dal Sudafrica, pagandoli 400 dollari al giorno – dicono alcuni media – in un paese in cui i soldati sono pagati un quarto, e anzi a volte non lo sono proprio.
[**Video_box_2**]La discriminazione economica è una delle piaghe che il partito di governo ha riaperto nell’ultimo decennio senza mai volerla risanare. E la corruzione, sua diretta conseguenza, è dappertutto, il denaro “è il lubrificante sociale, facilita il movimento pur mantenendo le gerarchie”, scrive in “Ogni giorno è per il ladro” Teju Cole, scrittore e storico dell’arte nigeriano. Cole racconta il suo ritorno a Lagos dopo quindici anni vissuti in America: è appena atterrato, vede due poliziotti che litigano. “Vattene”, grida uno. “Perché stai sempre qui? Perché non ti puoi mettere dall’altro lato?”, risponde l’altro. Litigano perché entrambi fanno fermare i veicoli per chiedere una mazzetta, ma non devono stare troppo vicini, altrimenti i guidatori si arrabbiano se devono pagare due volte una “mancia” che sanno inevitabile. Tutto questo – scrive Cole – “avviene sotto un cartellone con la scritta: ‘La corruzione è illegale: non date né accettate mazzette’”. Questa è “l’economia informale” che governa la vita dei nigeriani, in tutte le sue forme, fino a quella più detestata che è la mancanza di luce. Salta sempre la corrente. Anche Chimamanda Ngozi Adichie in quello splendido romanzo che è “Americanah” racconta il suo ritorno a Lagos scandito dal buio improvviso che cala sui volti e sulle conversazioni, a volte sui sentimenti e sulla gioia di essere a casa – e l’alternativa è il rumore dei generatori.
Eppure la Nigeria è la più grande economia dell’Africa, ha superato – in una notte, con qualche dato probabilmente drogato – il Sudafrica, registra tassi di crescita annui tra i più sostenuti del mondo. O almeno lo faceva. Perché dopo le grandi privatizzazioni che hanno caratterizzato i primi anni della presidenza Jonathan, la verve riformatrice si è presto spenta. Foreign Policy ha messo in fila alcuni dati sorprendenti: il settore manifatturiero nigeriano cresce ai ritmi più alti del mondo; ci sono più telefoni cellulari in Nigeria che persone in Giappone (è il più grande mercato di telefonia mobile in Africa, con 127 milioni di contratti telefonici); in Nigeria ci sono le più grandi riserve di gas naturale del continente, il nono giacimento più grande del mondo; Nollywood, l’industria cinematografica del paese, è la seconda più grande del mondo, produce più film dell’America e del Giappone messi assieme. Gavin Serkin, che si occupa di mercati emergenti a Bloomberg, ha scritto un libro che si chiama “Frontier”, in cui racconta i suoi viaggi in dieci paesi emergenti di frontiera. Il primo della classifica è la Nigeria, che è anche il più violento di tutti i paesi visitati: “La violenza che abbiamo visto in Nigeria era, senza eccezioni, causata dalla ricerca di soldi”. Nonostante questo la Nigeria è la numero uno, perché “è il paese che più assomiglia alle grandi economie emergenti del passato, il Brasile, l’India, la Cina”. E la corruzione che fa inorridire i nigeriani “non ha fermato la crescita di Cina e India”, ha detto Sanusi Lamido Sanusi, ex governatore della Banca centrale nigeriano sospeso da Jonathan.
Eppure se si considera la Nigeria un “failed state” non si sbaglia di tanto. Il 70 per cento delle entrate del paese derivano dalla vendita del petrolio, e nonostante gli sforzi di diversificazione anche Ngozi Okonjo-Iweala, l’economista nigeriana più famosa del mondo sempre in corsa per la leadership della Banca mondiale, ha dovuto ammettere che la dipendenza del paese dal petrolio non è stata abbattuta. Ora che il greggio vale così poco, gli esperti hanno iniziato a rifare tutti i conti e le previsioni, e la settimana scorsa Standard & Poor’s ha rivisto il rating al ribasso: la petro-nazione perde soldi e investimenti, perché il livello di rischio è sempre più alto. La naira, la valuta nigeriana, ha perso il 18 per cento del suo valore dall’inizio del 2015, mentre il Fondo monetario internazionale ha rivisto le previsioni di crescita al 4,8 per cento, quasi la metà del tasso medio degli ultimi 15 anni.
Tutti concordano nel dire che chi si troverà dopo sabato a guidare il paese avrà un compito difficile. Ma intanto bisogna superarlo, il voto: già nelle tornate precedenti c’erano state violenze, quest’anno l’allerta è ancora più alta perché il risultato è incerto, le frontiere sono chiuse, non si potrà circolare con le auto nelle grandi città (che sembreranno irriconoscibili così vuote). Molti chiedono un cambiamento, ma non sono certi che il generale Buhari possa offrirlo. A sostenere quello che ancora i nigeriani vogliono considerare il loro sogno, nonostante Boko Haram, nonostante la corruzione, ci sarà l’affluenza, e quel coro di chi aveva deciso di andare a studiare e a lavorare lontano, in Inghilterra o ancor più in America, e che oggi ripete: vogliamo tornare a casa, qui sì che ci sono opportunità.