C'è il “cool factor” nel jihadismo inglese (e la povertà non c'entra)
Londra. E’ stata messa al bando, ha cambiato nome, ma è sempre all’organizzazione al Muhajiroun, “Gli Emigranti”, che fa capo la variante britannica del jihadismo globale. Al Muhajiroun ha organizzato 22 dei 53 attentati terroristici riusciti o sventati dalla polizia inglese negli ultimi 20 anni. Un’organizzazione fondamentalista asiatica molto più che araba, cresciuta intorno alle comunità sradicate dal Kashmir e ristabilite nelle strade di Bradford o di altre città del nord, che ha imparato i rudimenti dell’islam da imam inadeguati a indovinare i pensieri dei giovani metropolitani e anglofoni, sospesi tra la comunità patriarcale e il mondo occidentale. Oggi il radicalismo islamico è diventato nel Regno Unito una delle espressioni più comuni di rabbia anti-establishment per minoranze assai disparate, ma per diventare jihadisti veri e propri ci vuole ben altro: ideologia, risentimento, attivismo.
E’ quello che racconta Raffaello Pantucci in “We love death as you love life”, Amiamo la morte come voi amate la vita, la prima storia completa dello jihadismo britannico. Il libro è pieno di elementi inquietanti. “E’ storia contemporanea, ma nessuno l’aveva raccontata tutta”, dice Pantucci al Foglio, aggiungendo che il tratto caratteristico del jihadismo londinese è il legame con il Pakistan, “che è anche il posto dove poi al Qaida è andata a finire” e che “è stato usato anche per lanciare attacchi nei confronti della Gran Bretagna”. Una connessione forte che è servita fino a quando internet non ha reso tutto a portata di mano per chiunque. “Prima se qualcuno mostrava delle intenzioni serie lo si mandava in un campo di addestramento in Pakistan, mentre per i francesi era più facile relazionarsi con gli arabi nordafricani”. Solo negli ultimi anni la situazione è andata a complicarsi e “il jihadismo inglese si è allargato alla Somalia e allo Yemen”.
Direttore degli studi di sicurezza internazionale del Rusi, Royal United Services Institute, ed esperto di jihadismo e di Cina, Pantucci racconta di come al Muhajiroun sia nata da una costola di Hizb ut Tahrir per volontà di Anjem Choudary, predicatore particolarmente incline a dire frasi estreme davanti alle telecamere, e del siriano Omar Bakri Mohammad, quello che negli anni 90 ci tenne a puntualizzare che in un paese islamico le Spice Girls sarebbero state arrestate immediatamente. Sebbene zone come Bradford siano particolarmente rappresentative in quanto a maggioranza musulmana, Londra rimane il luogo più complesso, quello in cui la working class pachistana degli anni 50 e 60 è venuta a contatto con i miliardi mediorientali negli anni 70, raggruppandosi per la prima volta intorno a una causa comune quando uscirono i “Versetti Satanici” di Salman Rushdie nell’88 – lì la questione era dire che non si poteva offendere l’islam liberamente – ma diventando anche teatro di alcuni episodi di violenza settaria, come le aggressioni sunnite ai ristoratori sciiti di Edgware Road nel 2013. A Londra sono iniziate anche le mobilitazioni per la Bosnia negli anni 90, primo grande tramite di reclutamento per jihadisti locali.
Ma oggi, più che le guerre balcaniche, sul fenomeno dei foreign fighter gioca un elemento molto contemporaneo, difficile da contrastare: il “cool factor”. Come ha spiegato recentemente Simon Kuper sul Financial Times, “lo Stato islamico è diventato un brand giovanile” e la “Siria una sorta di Ibiza salafita in cui i ragazzi stranieri incontrano le ragazze straniere”. Dove le nipotine degli immigrati del Mirpur sognano di andare a combattere e a sposarsi, nel rispetto della tradizione. La povertà invece non c’entra, spiega Pantucci, parafrasando Trotsky: “Se fosse la povertà a portare la gente verso il terrorismo, ce ne sarebbero molti di più, di terroristi”.