Un esperto ci accompagna nel balletto di Losanna sull'Iran
Roma. Il primo d’aprile doveva sancire l’alba di un mondo nuovo in cui il programma nucleare iraniano da minaccia alla sicurezza internazionale sarebbe stato derubricato al rango di una variabile sotto controllo. Ma a Losanna si continua a trattare e nonostante l’ottimismo di alcuni protagonisti, soprattutto russi, iraniani e tedeschi, i segnali restano contradditori e l’attesa nei confronti del primo mattone del deal (per l’accordo definitivo c’è tempo fino al 30 giugno) somiglia a quella per un eterno Godot. Gli Stati Uniti dicono di essere pronti a lasciare il negoziato sel’Iran non assume impegni tangibili, e tutte le opzioni restano sul tavolo, mentre gli iraniani dicono che rimarranno tutto il tempo necessario. “Non si possono fare previsioni, nessuno sa come andrà a finire, nemmeno i ministri che sono a Losanna – dice al Foglio Mohammed Reza Djalili, politologo e professore emerito dell’Istituto di alti studi internazionali di Ginevra mentre si rincorrono le voci su una possibile nuova estensione dei colloqui di 24 ore – Si tratta di negoziati complessi perché ci sono quattro livelli che si intersecano in questa trattativa: c’è l’aspetto bilaterale, quello dei rapporti tra l’Iran e gli Stati Uniti, quello multilaterale tra Teheran e i 5 più 1, molto macchinoso anche in ragione delle differenze tra i soggetti coinvolti: spiccanole distanze tra Parigi e Mosca. Il terzo livello coinvolge gli attori esterni contrari all’accordo, in particolare l’Arabia Saudita e Israele e c’è infine un quarto livello rappresentato dal contesto regionale: l’avanzata dello Stato islamico, l’Iraq, la Siria, lo Yemen”. Questa fase della trattativa è durata 18 mesi – sottolinea Djalili – ma il braccio di ferro, tra l’Iran e la comunità internazionale, va avanti da 12 anni. “Gli iraniani sanno quanto gli americani vogliano un accordo e sfruttano ogni occasione per sfiancarli, rialzando la posta in gioco”. (Noi parliamo di cifre, centrifughe e tempistica, loro rispondono attaccando con l’orgoglio, la dignità e il rispetto, ha raccontato una fonte americana al New York Times).
“Non si era mai visto un segretario di stato americano trascorrere tanto tempo a Losanna. Ma non sono stati gli iraniani a parlare di scadenze, a insistere sulle deadline sono sempre stati gli americani e tutti gli attori coinvolti li hanno prima sentito parlare di linee rosse e lo hanno poi osservato mentre venivano calpestate. La Siria è l’esempio più lampante ma non è l’unico. E’ stato un grave errore”. Mentre i tempi ieri si dilatavano, i negoziatori non parlavano più di un accordo quadro, ma di una meno ambiziosa dichiarazione congiunta che secondo gli iraniani non sarebbe stata corredata da allegati, una circostanza che rischia di complicare la vita all’Amministrazione Obama, desiderosa di dimostrare con le carte che Losanna non è stata un mezzo fallimento e che la “nuova fase” non è la continuazione di una trattativa già prolungata altre due volte.
[**Video_box_2**]Se il deal si farà davvero cosa comporterà per l’Iran? Secondo Djalili, l’aspetto principale in un’economia come quella iraniana fiaccata dalle sanzioni e dal crollo del prezzo del petrolio sarà la possibilità di una ripresa. “Bisogna considerare che le campagne del regime in Iraq, in Siria e in Yemen sono estremamente onerose”. Riguardo invece a come l’intesa influirà sui calcoli strategici del regime, lo studioso sottolinea che ci sono due teorie: un primo scenario in cui Khamenei non rinuncia all’armamentario ideologico rivoluzionario della Repubblica islamica e un secondo scenario, più ottimista, in cui Teheran cambia passo e inizia a giocare un ruolo costruttivo in Iraq, Siria e Yemen. “Personalmente non credo che fino a quando sarà in vita Khamenei, Teheran rinuncerà al suo antiamericanismo o al suo ethos rivoluzionario. Né penso che un accordo potrà influire sul controllo e sulla repressione che il regime attua nei confronti degli iraniani. L’unico obiettivo del regime è sempre lo stesso: impedire la sua dissoluzione”.