Assalto finale a Tikrit
Tikrit, dal nostro inviato. Tikrit è una città costruita come una lunga striscia sul fiume Tigri. Gli iracheni stanno attaccando da sud – dove c’è l’ospedale – e da nord – dove c’è il campus universitario. Sono entrambi grandi complessi di costruzioni dove i combattimenti vanno avanti angolo dopo angolo, edificio dopo edificio. Due giorni fa all’Università, lungo il perimetro che guarda verso sud, gli spari continuavano da tutte e due le parti, i bombardamenti aerei americani proseguivano, c’erano ancora morti trascinati via dentro le coperte con le braccia a penzoloni verso i cassoni dei pick up lasciati più indietro e da lì verso le ambulanze nelle retrovie – e i soldati ordinavano, anzi urlavano: “Niente fotografie!”.
Il grande campus universitario a nord di Tikrit da un mese è diventato una zona di guerra. Lo stato islamico è ancora asserragliato sul lato sud, che porta verso il centro della città
Eppure il governo iracheno ha bisogno di risultati e così ieri ha dichiarato vittoria contro lo Stato islamico, senza aspettare che le ultime sacche di resistenza a Tikrit fossero davvero sconfitte. Baghdad è pronta a cogliere ogni occasione per raddrizzare un poco l’orgoglio nazionale, piegato dagli eventi dell’anno scorso, quando lo Stato islamico ha preso il controllo di alcuni pezzi di paese nel nord e nel centro. I soldati iracheni sono riusciti a sfondare la linea a sud della città lunedì, hanno preso l’ospedale, sono risaliti fino al centro della striscia, al palazzo del governatore che affaccia sull’acqua – un progetto dei tempi di Saddam come tutti i grandi palazzi in Iraq – e hanno issato la bandiera nazionale.
I soldati e i gruppi paramilitari iracheni vanno e vengono dalla prima linea. Sullo sfondo il fumo provocato da un bombardamento americano sulle postazioni dello Stato islamico
Come talvolta avviene, la notizia precede il fatto e lo determina. Il primo ministro Haider al Abadi ieri mattina aveva detto ai ministri che “le forze di sicurezza sono arrivate in centro, hanno liberato la parte sud e quella ovest, avanzano per liberare l’intera città”, ma i media iracheni ormai non si tenevano più: il canale Al Iraqiya ha annunciato sullo schermo dei televisori che “Tikrit è stata interamente liberata, dice il primo ministro”. Così Al Abadi ieri pomeriggio è arrivato in elicottero al palazzo del governatore di Tikrit per celebrare la vittoria.
A nord del palazzo, il gruppo più violento del mondo sunnita, lo Stato islamico, controlla ancora la parte di territorio che s’allunga verso il muro perimetrale sud dell’Università, un territorio di palazzi sparsi, di depositi e di rifiuti industriali sparpagliati dove i soldati non riescono a penetrare. Sarà complicato per le squadre di sminatori che un giorno dovranno ripulire ogni passaggio dalle mine lasciate a centinaia. Per ora è impossibile. “Qannas”, c’è un cecchino che spara. Qannas da quella finestra, qannas dall’angolo di quell’hangar in lamiera, qannas in cima a quel muro di cemento. Il campus abbandonato è crivellato e i militari passano la maggior parte del tempo al di qua del muro, tra i cartelli nuovi di metallo blu che ancora segnalano in arabo e in inglese: facoltà di Ingegneria, facoltà di Chimica, Scienze del petrolio e così via. Puntano i tubi dei lanciarazzi verso i cecchini. E’ roba cinese degli anni Sessanta, dodici tubi da 107 millimetri montati assieme su due ruote, poco accurata ma brutale. Li agganciano a rimorchio dietro un pickup e corrono all’altro capo di un viale in cerca di una posizione migliore e aspettano il momento giusto e l’ordine di sparare i razzi ancora in direzione di Tikrit “la liberata”.
Sotto i colonnati bivaccano i gruppi paramilitari sciiti che partecipano alla battaglia con diverse gradazioni di ostilità e violenza contro i jet americani che sorvolano la zona per colpire lo Stato islamico qualche centinaia di metri più in là. “Sono inutili, possiamo ripulire Tikrit anche da soli”, dicono gli sciiti. Su internet circolano video in cui i gruppi sciiti annunciano di volere degli abbattimenti, ma si sa che l’osservatore modifica l’esperimento con la sua presenza e quindi ora non dicono niente di aggressivo. I jet agiscono invisibili, annunciati soltanto dal rumore del volo e dal botto che segue. La settimana scorsa hanno colpito per errore una postazione della brigata Badr, uno dei gruppi paramilitari sciiti più grandi e legati all’Iran. Tutte le congetture dentro al campus vanno nella stessa direzione: lo hanno fatto apposta.
La vittoria dichiarata a Tikrit è il culmine di una campagna militare che tende il paese allo spasimo. A Baghdad per ogni cartellone pubblicitario normale ce ne sono almeno altri due che chiamano all’arruolamento nei gruppi volontari e rendono onore ai caduti. Il gruppo più recente è Hashd al Shabi, in arabo “la mobilitazione del popolo”, che rifiuta l’etichetta di “milizia”: “Non chiamarci milizia se scrivi di noi, non siamo una milizia”, dicono al Foglio. Se rispondi che milizia è un termine neutrale, indica un gruppo armato che non fa parte di un esercito e che loro sono a tutti gli effetti una milizia, negano ancora. Il pensiero radicato nella mente di tutti è che milizia indica direttamente i gruppi sciiti che rispondevano colpo su colpo alla violenza di al Qaida in Iraq negli anni della guerra americana. Erano i tempi della faida, nel 2006, quando all’obitorio di Baghdad arrivavano cento cadaveri al giorno. Loro vogliono dare l’idea di essere una risposta popolare dell’Iraq contro l’invasione dello Stato islamico. Se lo slogan della primavera araba era “ash shab iurid iskat al nidam”, il popolo vuole la caduta del regime, ora c’è la “mobilitazione al shabi”, del popolo, la reazione filogovernativa che reagisce alla deriva jihadista del terremoto politico di quattro anni fa. Questa è l’idea, ma è ovvio che dietro alla mobilitazione c’è la maggioranza sciita. Da Baghdad su fino a Tikrit per centosettanta chilometri di autostrada ci sono le bandiere dei gruppi di combattimento sciiti al vento, quelle gialle degli Hezbollah iracheni, quelle rosse della Brigata Abu Hussein, quelle con le spade della Brigata Imam Ali, tutte figure riverite dello sciismo.
Un cartellone che chiama all’arruolamento nel “Comitato per la mobilitazione popolare”, l’ultimo gruppo di volontari nato in Iraq
I cartelli che celebrano la guerra dei gruppi sciiti contro lo Stato islamico davanti a una moschea, tra Baghdad e Tikrit
[**Video_box_2**]Quando il convoglio di Hashd al Shabi arriva alle porte di Tikrit, i volontari si fermano a festeggiare e a danzare sotto il cartello che indica la distanza che ancora manca a Mosul, un po’ più di duecento chilometri. Alzano i kalashnikov: “Ora Tikrit, poi Mosul!”. Lo fanno sotto gli occhi severi dell’Ayatollah Sistani, la massima autorità degli sciiti oggi in Iraq, che guarda da una gigantografia che qualcuno ha appeso sotto il cartello autostradale. E chissà cosa pensano i clan tikriti e sunniti locali che ancora oggi sono fan di Saddam, dieci anni dopo la sua fine politica, e che piuttosto che con gli sciiti preferiscono mettersi con lo Stato islamico. Guardano da dentro le case, in qualche caso combattono. Alcuni di loro non faranno godere questa vittoria militare a un governo che considerano nemico.
Shirwan al Waili, che era ministro della Sicurezza nel 2006, dice al Foglio (in un’intervista fatta nella Zona verde a Baghdad) che una delle differenze più grandi tra la guerra di prima, quando c’erano gli americani (i soldati a terra) e questa di adesso è che “allora avevano come armi le cinture esplosive. Ora hanno anche carri armati e cannoni”. A Tikrit comincia un lungo tour governativo di combattimenti di città in città per degradare lo Stato islamico dallo status attuale di esercito a quello precedente di gruppo terrorista. Non che avesse smesso di esserlo.
I volontari del gruppo “Hashd al Shabi” sotto un cartello che indica la distanza tra Tikrit e Mosul – c’è anche un poster con l’ayatollah Al Sistani, massima autorità sciita dell’Iraq
Ora Tikrit, poi Mosul, cantano i volontari di Hasd al Shabi. Però molti chilometri e qualche ora prima, appena fuori da Baghdad, il traffico sulla strada si è imbottigliato all’improvviso tra poliziotti che gridavano e stringevano le corsie, un soldato nella fretta ha fatto cadere il caricatore dal fucile e si è fermato a raccoglierlo tra le automobili bloccate. E’ successo che un attentatore suicida dello Stato islamico ha visto un pulmino carico di pellegrini iraniani in sosta, si è avvicinato e si è fatto saltare. Aveva passato i checkpoint e i controlli di sicurezza vicino alla capitale senza un obbiettivo specifico: era un “opportunista”, a caccia di un bersaglio pagante.