Uso spropositato della carota
Perché l'accordo sull'Iran mette a nudo la storica debolezza di Obama
New York. “Found solutions” ha twittato ieri sera il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, annunciando che a Losanna le parti hanno trovato un accordo abbastanza solido per portare la trattativa al prossimo stadio, con la deadline fissata per la fine di giugno. Il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha parlato di una “soluzione sui parametri chiave”, che permette di lavorare sulla stesura di un accordo comprensivo. “Buone notizie”, ha detto Federica Mogherini, capo della diplomazia europea, prima di leggere la dichiarazione congiunta, che offre alcuni dettagli: l’Iran manterrà l’impianto di Natanz per l’arricchimento di materiale nucleare, mentre la centrale di Fordo sarà convertita in un “centro di ricerca”; in cambio Teheran viene sollevata da tutte le sanzioni, secondo “fasi” che dovranno essere stabilite in questi mesi. Barack Obama dal giardino delle rose ha parlato di un pre-accordo “che non è basato sulla fiducia, ma sulla verifica”, ed è il “migliore accordo che si è presentato fin qui”. Benjamin Netanyahu si è subito dichiarato contrario e in serata ha ricevuto la chiamata del presidente americano. Molto, naturalmente, dipende dai dettagli, quelli dove sta il diavolo, ma la cornice è stabilita. Dopo otto giorni consecutivi di trattative, il segretario di stato John Kerry porta a casa un risultato ancora inverificabile ma politicamente già spendibile per Obama. Il quale però nelle ultime ore ha preso a mandare messaggi intrisi di cautela all’interno e agli alleati. I critici dell’accordo nucleare con l’Iran hanno ottime ragioni per coltivare il loro scetticismo.
I tempi supplementari di questa partita diplomatica, l’estenuante traccheggiare e spostare in avanti l’orizzonte temporale del grand bargain, giovano principalmente a Teheran. Ogni ora che Kerry ha passato a Losanna in più rispetto alla tempistica stabilita è un’implicita esibizione della posizione di debolezza dalla quale l’Amministrazione Obama sta negoziando; il presidente si è vincolato mortalmente alle sue stesse promesse, e l’unica cosa che terrorizza la Casa Bianca più di un accordo svantaggioso con gli ayatollah è l’assenza di un accordo, rovesciamento del classico slogan di Netanyahu. L’assenza di un accordo è il peggiore dei mondi possibili per un presidente che ha fortissimamente promesso di tendere la mano e normalizzare le relazioni. L’uso spropositato della carota in questo round svizzero ha messo però in allarme molti a Washington. Ieri il Wall Street Journal dava conto delle turbolenze fra la Casa Bianca e il Congresso, descrivendo il tentativo di mettere a punto un piano B, basato sull’uso del bastone, nel caso che le trattative finiscano male. E l’eventualità non è remota, nonostante i composti entusiasmi svizzeri di ieri attorno ai “parametri chiave”. Il portavoce di Obama ha rispolverato il solito “ventaglio di possibilità”, che contempla nuove sanzioni e generiche minacce di azioni militari contro le installazioni nucleari dell’Iran, mentre i falchi repubblicani al Congresso, capitanati dalla coppia McCain-Graham, hanno messo una pietra tombale su qualunque accordo: “Ogni speranza che un accordo porti l’Iran ad abbandonare la sua antica aspirazione alla dominazione regionale attraverso la violenza e il terrore è illusoria”. Dennis Ross, ex inviato dell’Amministrazione per il medio oriente, spiega che a questo punto la Casa Bianca deve delle spiegazioni a chi avanza legittimi sospetti sull’esito dell’accordo: “Invece di mettere in dubbio le motivazioni degli scettici, l’Amministrazione deve dimostrare che ha risposte convincenti alle loro preoccupazioni sui punti deboli di un accordo”, e ha aggiunto un’osservazione notevole sul cambio di obiettivi: all’inizio del mandato la Casa Bianca voleva smantellare il programma nucleare iraniano, ora si accontenta di contenerlo e controllarlo, accettando metamorfosi quantomeno sospette di centrali nucleari in “centri di ricerca”. E se il tavolo salta ancora, qual è il piano B di Obama? A questa domanda il presidente deve dare risposta prima di stringere la mano al nemico.