Dentro a Politico Europe, il disruptor dei media di Bruxelles
Dalle finestre di Politico Europe, Bruxelles sembra una ragazza interessante, con tante cose da dire, a tratti misteriosa, perfino carina, certo non l’anziana signora, noiosa e arpia, con cui ci siamo abituati a trattare in anni di infastidita convivenza. Se dici che la capitale europea è grigia e “boring”, qui ti si spalancano davanti occhi sbalorditi: “Come fai a dire che è noiosa?”, e se pure deve esserci un ordine di scuderia che vieta l’utilizzo di questa parola, tutti sono davvero convinti che l’approccio “Bruxelles è noiosa” è il grande errore fatto in questi anni dai media tradizionali.
“E’ una città complicata, non noiosa”, dicono, e il loro obiettivo è trasformarla agli occhi dei lettori europei – e degli “azionisti” della cosiddetta “Bruxelles bubble” – raccontandola con i suoi personaggi e la sue storie, spiegandola nei suoi dettagli quando sembra diventare ben più arcigna di quella che è, tirando fuori quel che di vivace e di rilevante c’è nell’immensa bolla in cui Bruxelles vive da anni. Il modello è quello che Politico ha sperimentato con successo a Washington, partendo come una start up spigliata ma dal destino incerto e diventando un hub imprescindibile per capire che cosa accade nella politica americana. Non si parla del prodotto cartaceo, del sito, degli eventi, dei cosiddetti “verticals”, gli approfondimenti su temi specifici che si chiamano “Pro”, come prodotti a sé: Politico Europe è un progetto unico, in cui l’integrazione è talmente implicita che nessuno sente il bisogno di citarla, “non ci importa se uno legge le nostre informazioni sulla carta, sul sito, sul telefono o le scopre partecipando agli eventi”, dice Gabriel Brotman, capo della Strategia e del Business development, l’importante è che ci siano tanti punti d’accesso, e che una volta che sei dentro ti piaccia e ti risulti utile quel che ci trovi. E’ un modo nuovo di raccontare Bruxelles, nel metodo e nella forma, e quando chiedo se si sentono gli Uber dei media bruxellesi, dei “disruptor” destinati a smantellare la flemma europea sostituendola con un’informazione cool, mi rispondono “assolutamente sì”, – Florian Eder, Managing Director, saggiamente precisa: “Ma senza le proteste dei tassisti”. Politico Europe vuole essere un distruttore gentile, chissà se è dato in natura un mostro buono, o se la maschera sorridente nasconde voracità spietata. Certo è che la reazione tipica a Bruxelles, quando parli di Politico Europe, è un misto tra la preoccupazione e il terrore, il corpo dei giornalisti che lavora qui sa che la competizione diventerà feroce, questi ci spazzano via tutti. “Ma no, c’è una grande eccitazione”, dice Jacopo Barigazzi, “il nostro italiano”, come me lo presentano, il primo reporter assunto da Politico, “per molti questa è anche l’occasione di mostrare il proprio lavoro. Il parlamentare europeo è frustrato, fa un lavoro durissimo e serio, deve dimostrare competenza, conquistare autorevolezza, ma poi a casa sua di quel che fa che cosa arriva? Niente. Ora finalmente questo lavoro sarà mostrato”, così come tutto quel che tendenzialmente è ignorato dalla copertura tradizionale dei fatti di Bruxelles (forse perché è noioso e non ci interessa? No!).
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Il lancio di Politico Europe è previsto per il 21 aprile, la prima edizione cartacea del settimanale uscirà il 23, e poi sempre ogni giovedì, “sia il sito sia il giornale assomigliano molto alla versione americana”, dice il direttore Matthew Kaminski – gentile e indaffarato, si siede e si alza di continuo – così come l’approccio editoriale è quello sperimentato negli Stati Uniti: l’informazione è non partisan, “estremamente non partisan”, voracemente non partisan. “E’ un po’ come Espn”, dice Kaminski citando l’emittente americana che trasmette programmi dedicati unicamente allo sport: “Nessuno a Espn fa il tifo per una squadra o l’altra, ed è la migliore informazione sportiva che c’è”. Come si fa a non prendere parte quando si tratta di far uscire la Grecia, sì o no, sostenere il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, sì o no, attaccare Google, sì o no, e gli esempi sono migliaia? Come si fa a non prendere parte quando ti trovi ad avere a che fare con ventotto paesi, ognuno con i propri interessi, ognuno con i propri governi e i loro oppositori, ognuno con una propria idea di Europa in testa? La risposta di Kaminski è semplice e immediata: “Good journalism”. “Non c’è niente di idealistico, non vogliamo essere più nobili degli altri, non siamo un’azienda no profit, vogliamo fare un business e vogliamo avere dei ricavi – spiega il direttore – e per questo non abbiamo una visione partisan, perché se sei schierato, non va bene per le storie che racconti, ma non va bene nemmeno per il tuo business. Vogliamo raccontare quel che accade qui, fare degli scoop, scrivere in modo chiaro, interessante, se serve irriverente, senza preoccuparci di servire questa o quell’altra agenda, perché l’unica agenda che conta per noi è quella di fare un prodotto che piace a più persone possibili”. Ma fuori da questi uffici da cui Bruxelles pare fighissima, il giornalismo un business in splendida forma e il piagnisteo sulla fine dei giornali e dei media sembra appartenere a un altro pianeta, c’è chi dice che l’agenda politica c’è eccome, ed è quella dettata “dall’editore tedesco”.
Il direttore di Politico Europe, Matthew Kaminski (la foto è stata messa su Twitter da @BmbBrussels)
Politico Europe è una joint venture, 50-50, tra Politico, che è di proprietà di Albritton Communications, e Alex Springer, l’editore tedesco appunto, la casa editrice più grande del continente europeo, con la Bild e la Welt controlla la quota di mercato più rilevante del mercato tedesco, con una forte connotazione politica conservatrice (a quanto ammonta l’investimento iniziale non è dato sapere, “not disclosed”). Più di un anno fa, quando Politico negli Stati Uniti aveva consolidato il suo potere, allargando l’offerta di prodotti (l’ultimo nato era Politico Magazine) e i mercati di riferimento, comprando il sito di news Capital New York e sbarcando così a New York, “Alex Springer bussò alla nostra porta – dice Gabe Brotman – ed era il momento giusto per loro, il momento giusto per noi, e così abbiamo iniziato a pensare a lanciare Politico in Europa”. Questo è stato il primo passo. Il secondo è stato l’acquisto di European Voice, uno dei media più influenti della “Bruxelles bubble”, un settimanale di 25-30 pagine, formato tabloid, che costa 4,70 euro, viene letto da circa sedici mila persone e racconta tutto quel che succede, tra “politics and policy”, nella capitale europea. Sheherazade Semsar-de Boisséson, oggi managing director di Politico, racconta di aver comprato European Voice due anni fa dal gruppo che pubblica l’Economist, “con un unico obiettivo in testa: desideravo follemente portare Politico a Bruxelles. Ero spesso a Washington ed ero colpita dal successo di Politico e da come era riuscito a guidare la politica di Washington, e non capivo perché qualcuno non stesse pensando di portare lo stesso modello a Bruxelles”. Lo ha fatto lei, questa bella e (come tutti) sorridente imprenditrice che, dice, nella vita si è principalmente “occupata di eventi” e che ha capito quanto gli eventi fossero diventati “una grande fetta dei ricavi dei media”, oltre ai lettori, oltre alla pubblicità, oltre ai canali tematici, oltre a tutto. Così Semsar-de Boisséson ha messo a disposizione quel che già possedeva e quel che già sapeva della bolla e dei suoi meccanismi, cioè il suo European Voice. “Ma non si tratta di un ‘rebranding’, non prendiamo European Voice e la chiamiamo Politico, è tutto un altro modo di raccontare, soprattutto è tutto un altro modello di business”, in cui gli eventi sono “un’altra piattaforma della stessa azienda mediatica, assieme al digitale, alle newsletter”: è tutto giornalismo, buon giornalismo direbbe Kaminski.
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Il collante è il mantra politics-and-policy, “non facciamo altro rispetto a questo”, dice Brotman, è il core business che si articola in modi differenti, “magari in modi che ancora non conosciamo”, aggiunge ammiccante Semsar-de Boisséon (anche in altre interviste mi è stato detto qualcosa del tipo “ci saranno cose davvero innovative, mai sperimentate”, ma il segreto industriale non è stato svelato). Questa è la grande differenza rispetto ai media tradizionali, che ancora si tormentano tra le loro diverse piattaforme, chi lavora per la carta, chi lavora per il digitale (e a volte i due schieramenti non si parlano nemmeno): Politico ha eliminato il problema all’origine, ci sono i lettori e c’è una newsroom, come si parlano tra loro dipende da come i lettori vogliono usufrire dell’informazione, Politico mette a disposizione diverse modalità, poi la gente sceglie. L’approccio è quello del “disruptor”, si prende un mercato affollato (e in questo caso piuttosto saturo e lagnoso) e lo si invade con un modello di business nuovo, che nessuno ha, e che in questo caso – dicesi vantaggio competitivo – ha già provato di essere solido e redditizio negli Stati Uniti. Come spiega Brotman, ci sono players forti, ma nessuno “connects the dots”, unisce i puntini. Non lo fanno i media come European Voice, quelli della “bubble”, non lo fanno i media settoriali per loro stessa natura, non lo fanno i media nazionali, che spesso sono anche scritti in lingue diverse da quella utilizzata da Politico, e non lo fanno nemmeno i media internazionali – “che sono fatti bene, infatti abbiamo preso molta gente da loro” – ma che hanno un numero di giornalisti non troppo elevato e che scrivono con una prospettiva dettata dal loro paese di provenienza. I competitors sono tanti, ma nessuno ha la forza d’urto di Politico Europe, che, come dice Semsar-de Boisséson, non è soltanto un “disruptor” (“negli Stati Uniti lo è stato, questo è un fatto), ma “vuole riempire un vuoto” lasciato libero dagli altri media, un vuoto di contenuti e un vuoto di business.
Politico Europe inizia con una redazione di una quarantina di persone, ma l’obiettivo è di 200 in due anni. Il core business è “politics and policy” di Bruxelles
Il patrimonio di partenza è quel che è stato costruito negli Stati Uniti. Fondato nel 2007 da due giornalisti del Washington Post, John Harris e Jim VandeHei (proposero lo stesso progetto al direttore del quotidiano, che lo bocciò, poi ci ripensò, poi però non riuscì a trattenerli), Politico impiega 300 persone, di cui 150 nella newsroom, ha dai 7 agli 8 milioni di visitatori unici al mese, che stanno sul sito in media 13 minuti ciascuno, per una media di 50 milioni di pagine viste al mese. Il giornale di carta, che esce su base quotidiana tranne nei periodi in cui le sessioni al Congresso sono sospese, è distribuito gratuitamente in 35 mila copie, nel 2013 è stato lanciato Politico Magazine, il settimanale diretto dalla bravissima Susan Glasser, i canali di approfondimento, accessibili con un abbonamento, aumentano ogni anno, ora sono 13, ci sono 19 newsletter, tra cui il celebre Playbook di Mike Allen, gli eventi, i libri, i video, una massiccia presenza sugli altri media, soprattutto quelli televisivi. Nel 2009, a due anni dalla fondazione, i ricavi erano di 20 milioni di dollari l’anno, e il trend è sempre stato in crescita. Jim VandeHei, che ora è ceo di Politico, ha scritto un memo per lo staff a gennaio molto chiacchierato (le lettere interne alle aziende sono diventate un genere, c’è chi ironizza che prima o poi sarà istituito un premio giornalistico per il “Best Staff Memo”) in cui ha detto che nel 2014 Politico ha aumentato del 25 per cento i suoi profitti rispetto all’anno precedente e ha fatto anche “grandi investimenti”. VandeHei ha ribadito la mission: “Vogliamo affilare ed espandere quel che ci ha reso grandi: l’istinto assassino, il focus maniacale sugli scoop e sul dominio autorevole della politica e delle politiche. Questo non cambierà mai”.
A Washington Politico è diventato un “must read” nel giro di pochi mesi. Gli altri media da anni si interrogano su qual è il suo “segreto”
E’ lo spirito che è stato esportato a Bruxelles, anche se qui l’aggressività non si vede affatto. C’è aria da start up, gli uffici sono ancora quelli di European Voice – che sarà pubblicato fino alla settimana prima del lancio di Politico Europe –, all’ingresso ci sono le bottiglie d’acqua e il carrellino giallo per trasportarle. Un disegno sopra al divanetto degli ospiti raffigura il presidente russo Vladimir Putin che mostra la strada, cingendola con il braccio, alla capa della diplomazia europea, l’italiana Federica Mogherini – è l’unica cosa “partisan” in cui mi sono imbattuta in tutta la giornata a Politico. I nuovi assunti sono per ora sistemati negli uffici in un’altra ala del sesto piano del Residence Palace, bisogna superare due porte con il maniglione antipanico per raggiungerli: si affacciano su un lungo e freddo corridoio, sono mezzi vuoti e disadorni, il neon elimina ogni romanticismo. “Stiamo cercando un’altra sede, entro l’estate ci spostiamo”, dice Kaminski: sarà sempre nella stessa zona, che è quella che dà sulla Commissione, a due passi dal Consiglio europeo (se non fosse che in mezzo c’è un cantiere via l’altro, le piccole gru fanno passare i loro carichi sopra le teste dei passanti, senza avvisare). Gli uffici saranno grandi, perché per ora lo staff è di una quarantina di persone, ma entro due anni l’obiettivo è di arrivare a 200: “Avremo più giornalisti nei centri nevralgici del mondo, Washington e Bruxelles, di qualsiasi altra pubblicazione”, dice Semsar-de Boisséson. Ci sono anche due altre redazioni per ora: a Parigi, dove Politico Europe usa gli uffici del Development Institute International, un’azienda che si occupa di eventi che la Semsar-de Boisséson ha fondato nel 1993, e si sta cercando una sede a Londra. In Italia ancora niente, ma guai a dire che il nostro paese è stato trascurato, “c’è il nostro primo reporter Jacopo!”, le copie del settimanale saranno distribuite ai più importanti “decision makers” dell’Unione europea, e “arriveranno certamente a Roma”. Gli obiettivi per la distribuzione non sono grandiosi, “circa 30 mila copie”, “che sono comunque quasi il doppio di European Voice, che distribuisce 16 mila copie”, dice Semsar-de Boisséson, perché l’obiettivo “è un target piccolo ma molto qualificato”, cioè tutti coloro che hanno interesse a sapere che cosa accade davvero nella capitale europea. Non ci sono nemmeno obiettivi per il ritorno sull’investimento, o almeno non vengono esplicitati, “i nostri partner hanno una visione di lungo periodo”, spiega Brotman. Il mercato della pubblicità non è accogliente, negli Stati Uniti cresce del 3,9 per cento, in Europa del 2,4, ma “questo è un prodotto talmente nuovo che non si può ragionare secondo gli schemi classici”, ribadisce Semsar-de Boisséson. Non si possono fare paragoni, insomma, questa è la forza dei distruttori. Per ora l’unica preoccupazione sono i contenuti, o come dice Bill Nichols, che ha raggiunto il team di Politico quasi subito, nel 2007, e oggi è editor at large, “scrivere storie che la gente ha voglia di leggere”, questo, dice, “è il famoso segreto di Politico”.
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[**Video_box_2**]Bill Nichols – che qui è considerato una star, al pari di Mike Allen, in arrivo per un training dei giornalisti e presente al lancio del 21 aprile – cerca di spiegare quali sono le differenze tra l’esperienza negli Stati Uniti e quel che accadrà a Bruxelles. Prima di tutto: “Non siamo gli americani a Bruxelles”. Non si tratta soltanto del fatto che nel Vecchio continente il rapporto con gli americani è venato di sentimenti contrastanti, adorazione e scetticismo assieme, quanto piuttosto del fatto che Politico Europe non porta avanti un punto di vista americano, “questa sarebbe la morte”, dice Nichols. Il modello viene dall’America, il killer instict pure, ma questo è un media europeo. Il team è stato costruito pensando ai diversi paesi e alle diverse lingue parlate, i reporter devono sapersi orientare nei vari paesi, e soprattutto devono capire Bruxelles. Senza prendere posizione. “Il mondo è pieno di opinioni – dice Nichols – e non ho la pretesa di dire che il mio punto di vista non esiste, o che l’oggettività perfetta è raggiungibile. Solo non voglio raccontare le mie storie per dire qualcosa di specifico, per seguire un interesse o un obiettivo: la forza di Politico negli Stati Uniti è stata questa, e lo sarà anche qui”. Non è nobiltà d’animo né supponenza anglossassone, non è che loro i giornali li sanno fare e noi no, non è nemmeno facile prescindere da quel che si pensa del mondo, “è che sei più forte tra i tuoi lettori e nel mercato se offri un’informazione non partisan”. Poi “noi abbiamo la fortuna di poter guardare Bruxelles come Bruxelles – dice Nichols – non abbiamo un’audience di un paese di riferimento: se fossi del Financial Times e non raccontassi le storie con la lente di Londra, non starei facendo bene il mio lavoro”, ma qui questa precondizione non esiste. “Semplicemente non usi quella parte di cervello”, dice Kaminski, non ti chiedi cosa pensi, “cerchi di raccontare quel che è nuovo, interessante, e lo fai in modo chiaro, divertente, irriverente”. Però, dài, l’editore tedesco, che ha il 50 per cento dell’azienda, che è in una posizione paritaria rispetto ai non partisan, e che una lente ce l’ha eccome, basta guardare qualsivoglia copertina della Bild o le campagne contro i colossi internazionali di internet, disruptor a loro volta, davvero non influenza, davvero Politico Europe non è americano e non è nemmeno tedesco? “Il nostro rapporto è molto chiaro – spiega Florian Eder, managing editor, che è tedesco anche se mi viene presentato da Kaminski come “uno di quelli che potrà fare i podcast in italiano”, perché parla bene la nostra lingua, ha vissuto a Milano tre anni quando lavorava per l’edizione tedesca del Financial Times – c’è un accordo su quel che vogliamo fare e sulle regole che vogliamo seguire”. Alex Springer sa che Politico non si schiera per vocazione, questo è un investimento di business, con l’obiettivo di fare ricavi con un’informazione che in Europa c’è poco o forse non c’è proprio: il vuoto da riempire è questo: il resto, le opinioni, le campagne, è più che pieno. Grande giornalismo, grandi profitti.
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Ogni volta che qualcuno dice la parola “scoop” mette su il muso del gatto con in bocca il topo, sembra che abbia nei cassetti decine di scoop, Nichols ammette che “ci piace tirare qualche pugno, con le nostre inchieste”, e il “killer instinct” che domina a Washington comincia a definirsi. Carrie Budoff Brown, associate editor, dice che il suo obiettivo è quello di creare “una redazione di giornalisti che tutte le mattine si svegliano e vogliono vincere”. Per farlo, dice, è necessario capire qual è il carattere distintivo di Politico, quello che lo rende diverso dagli altri fornitori di informazione (a questo punto dire media sembra quasi riduttivo): “A Bruxelles portiamo il nostro focus non soltanto su quali decisioni vengono prese – spiega – ma come e perché vengono prese. Ci concentriamo sull’intersezione tra le politiche e la politica, e vogliamo farlo in un modo che sia convincente, contestuale, chiaro, equilibrato e divertente”. A questo serviranno le storie e i personaggi che saranno raccontati sul sito e sul settimanale, che Kaminski descrive come “un giornale del weekend”, riferendosi ai dorsi del fine settimana dei quotidiani anglossasoni. Poi ci saranno i canali di approfondimento, i cosiddetti “Pro”, che all’inizio saranno tre (gratis e poi in un secondo tempo a pagamento) e riguarderanno l’energia, la tecnologia e la sanità. Florian Eder, che si occupa principalmente di sviluppare questi canali, dice che la sfida è dimostrare di avere le capacità di fornire contenuti autorevoli e nuovi: “Il nostro pubblico è composto da persone con grandi professionalità e interessi, che capiranno fin da subito se siamo in grado di offrire informazioni soddisfacenti”. Questa è l’audience più esigente ma anche quella che davvero può fare la differenza, perché questo “pillar” della piattaforma omnicomprensiva di Politico è una importante fonte di ricavi. Eder, come tutti gli altri, non ha obiettivi di profitto, nessuno si stanca mai di ripetere che Politico Europe è un investimento a lungo termine, quel che conta adesso è costruire i contenuti, per dare al prodotto la credibilità che ha già dimostrato di avere negli Stati Uniti. “Più vai nello specifico, più le attese del pubblico si alzano”, dice James Panichi, australiano che parla un italiano perfetto, che si occuperà trasparenza, lobbying e governance. Panichi è stato uno dei primi dipendenti di European Voice a essere confermato nel team di Politico, ed è stato lui a proporre ai nuovi arrivati un focus su questi temi: “Sono questioni che non vengono quasi mai seguite, perché i giornalisti a Bruxelles spesso si occupano soltanto delle grandi notizie, mentre qui abbiamo il lusso di poter spiegare anche questi meccanismi, che sono importanti e decisivi”. Sulla trasparenza una fonte esterna alla redazione di Politico racconta una storia divertente: di fronte al Residence Palace dove ha per ora sede Politico, c’è un palazzo che è appena stato costruito dal niente. A Bruxelles funziona così: butti giù e tiri su. E’ chiamato il palazzo Herman Van Rompuy, perché l’ex presidente del Consiglio europeo aveva dato il via libero ai lavori. Dentro c’è una struttura che sembra un uovo, tutta a vetri, con le sale riunioni in bella vista, massima espressione di trasparenza, il potere bruxellese senza filtri. All’ultimo, hanno deciso di mettere delle cornici alle finestre, di legno chiaro, riciclate da antiche finestre. Il risultato è di dubbio gusto, ma il bello è che l’uovo da fuori ora non si vede più, cioè il palazzo della trasparenza è diventato opaco come gli altri. Vuol dire che in effetti il vuoto da colmare a Bruxelles è grande, non solo nel giornalismo.
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Il prodotto più atteso, al momento, è la newsletter mattutina, il Playbook che negli Stati Uniti viene redatto da Mike Allen, “il giornalista più influente di Washington”, come lo definì Dan Pfeiffer, ex capo della comunicazione della Casa Bianca di Barack Obama. Il Mike Allen europeo – anche se Kaminski dice ridendo che “un Mike Allen è già abbastanza” – è Ryan Heath, australiano d’origine ma molto conosciuto a Bruxelles, è stato consigliere di José Manuel Barroso e il portavoce della commissaria Neelie Kroes (è anche un rottamatore, nel 2006 scrisse un saggetto dal titolo: “Please Just F*Off: It’s Our Turn Now”): sarà lui a redigere il Playbook di Bruxelles. Al momento non è in redazione, risponde alle domande via email, anche se sulla richiesta più rilevante ovviamente glissa: qual è il consiglio più importante che ti ha dato Mike Allen? “Sono a Washington con Mike, ti farò sapere quando torno la prossima settimana”. Rispettando l’ordine di scuderia, Heath dice che “Bruxelles è affascinante, piena di potere e di colore, ma per la maggior parte delle persone è molto difficile da capire, perché non segue le stesse regole e tradizioni delle politiche nazionali, e così molti ci hanno rinunciato”. Ma non puoi rinunciare a comprendere Bruxelles perché, come dice Jacopo Barigazzi, l’italiano per l’appunto, anche se, a parte l’esperienza con Linkiesta, ha sempre lavorato in media stranieri, “il 70 per cento dell’attività parlamentare in Italia è il recepimento delle norme europee: questo significa che stai descrivendo il potere dove esso non c’è più, nel Parlamento italiano, e non lo stai ancora descrivendo dove esso si è spostato, cioè a Bruxelles”. E’ una questione delicata, si sa che con la sovranità bisogna andarci cauti, gli inglesi sono disposti a lasciare il consesso europeo pur di mantenere i propri diritti sovrani, e buona parte dell’antieuropeismo si fonda proprio sul “Bruxelles ci ruba i poteri”. Così “i governi non dicono fino in fondo dov’è davvero la sovranità”, continua Barigazzi, ma oggi è ancora più importante farlo da Bruxelles, “dove avviene buona parte di quel che influenza la vita degli europei”. Nel bene e nel male, insomma, questo è il motivo per cui questa città non può essere noiosa – che cosa “silly”, scema, questa di dire che qui ci si annoia, dice Nichols – ma anche il motivo per cui va raccontata con un piglio diverso da quello esistente. “Parlo e scrivo in modo semplice e chiaro – spiega Ryan Heath – Il mio obiettivo è far sì che gli insider e gli outsider possano comprendere Bruxelles, e perché alcune cose accadono. Darò ai miei lettori il motivo e gli strumenti per prendersi la briga di dedicare tutti i giorni cinque minuti a sapere cosa accade a Bruxelles”. Quei cinque minuti, negli Stati Uniti, si sono trasformati in un business che nessuno si aspettava, una fonte di profitti che ha completamente ridisegnato il mercato delle newsletter, rendendo Mike Allen una figura mitica, che lui ha alimentato alla grande con una buona dose di mistero: “Ma come fa?”, è la domanda che tutti si fanno, anche a resistere fisicamente, dico io. Il mistero attorno a Ryan Heath è molto meno spesso, lo conoscono molti a Bruxelles, ma il suo Playbook sarà “un’estensione del brand” che è già molto noto, “ma sarà un prodotto per questa comunità, per chi è qui personalmente o per chi sta altrove. Voglio che i miei lettori mi aiutino a modellare Playbook – dice Heath – sarà un ‘work in progress’”.
Tutto è ancora in via di definizione, a Politico Europe. Il lancio è molto vicino, e sono tutti indaffarati. C’è qualcosa in particolare che tiene i distruttori svegli la notte? Florian Eder dice che è la quantità di lavoro, Bill Nichols la sfida di un mercato tutto nuovo, Matthew Kaminski ci pensa un attimo, “veramente collasso tutte le sere e poi alle sei e mezza sono di nuovo in piedi”, poi spiega: “La nostra è una storia impegnativa, il brand è molto noto negli Stati Uniti ma in Europa è ancora da consolidare, il modello di business è forte, ma qui dobbiamo anche cercare di unire tutti i puntini, che sono le differenze dei paesi e delle loro capitali. Finché non hai veramente testato il mercato, non sai quanto bene potrà funzionare. Abbiamo fatto molte ipotesi, e siamo tutti fiduciosi, ma sappiamo che ci sono dei rischi. Anche personali, abbiamo lasciato tutti lavori sicuri”, lui in particolare uno di lungo corso al Wall Street Journal. Il distruttore sarà spietato, è stato costruito per questo, ma un cuore forse ce l’ha, e quella ragazzina di nome Bruxelles è ancora tutta da conquistare.