L'Estonia a scuola di "difesa della patria". Il timore baltico di un invasione russa
“Nel caso di un’invasione russa, le truppe di intervento della Nato non ce la farebbero mai a essere qui, in Estonia, in meno di 48 ore” di questo Marele, una studentessa di 16 anni, è convinta. In un reportage appena trasmesso dal canale pubblico tedesco Zdf, la si vede insieme a un gruppo di compagni di scuola provare ad accendere un fuoco per preparare la cena. Stanno imparando a non perdere l’orientamento nelle vaste distese boschive che caratterizzano l’Estonia (“sapersi orientare da queste parti è il nostro punto di forza rispetto ai russi”), a non finire nelle paludi, a cucinare e a dormire all’addiaccio, come prevede il corso scolastico di “difesa della patria”, introdotto dal governo per prevenire una possibile invasione. E anche se sono due giorni faticosi, al freddo e all’umido, è d’accordo che alle superiori sia introdotta questa materia.
La Nato in autunno ha dato il via libera a un’unità militare permanente di 5.000 uomini di stanza in Polonia e all’istituzione di cinque nuove basi deposito nei paesi baltici, in Polonia e in Romania. Gli estoni però non si fidano e sono decisi a non finire ancora una volta sotto il tallone di Mosca. Partecipare alle esercitazioni non è facoltativo per i ragazzi, chi non lo fa non può presentarsi agli esami di maturità o di fine ciclo scolastico. E anche i ragazzi russofoni devono prendervi parte. Vivere come i partigiani di un tempo, questo prevede il programma, senza armi però. L’addestramento a sparare è, infatti, vietato nelle scuole estoni. Ma non al di fuori delle stesse. E così ci sono anche sempre più ragazzi degli ultimi anni delle superiori che entrano in una delle numerose organizzazioni paramilitari presenti su tutto il territorio nazionale. Queste esistono da quasi un secolo, le prime vennero costituite quando il paese conquistò per la prima volta, nel febbraio del 1918, l’indipendenza (presto spazzata via però, prima dall’occupazione nazista e poi dall’annessione nel 1940 all’Urss).
Ultimamente, soprattutto in seguito alle chiare mire espansionistiche di Mosca, queste organizzazioni hanno conosciuto un costante aumento di soci e contano oggi 15 mila iscritti, tutti convinti che un paese che rinuncia a difendersi da sé, è un paese destinato a scomparire dalla carta geografica. L’adesione prevede che una volta al mese si partecipi a un campo di addestramento. In caso di conflitto anche queste organizzazioni paramilitari saranno agli ordini dell’esercito. Truppe ancora molto giovani, tremila soldati con un età media di appena 25 anni. Troppo pochi, evidentemente, per contrastare la forza d’urto dei russi.
L’Estonia non è però l’unico paese baltico che si prepara al peggio. Anche la Lituana, che come gli altri paesi baltici ha passato cinquanta anni sotto dominazione sovietica, ha già preso provvedimenti al riguardo. Vilnius osserva da tempo con grande preoccupazione quel che fanno i russi in Ucraina e la scusa paventata da Mosca di voler proteggere le sue minoranze etniche in terra straniera, varrebbe anche per la Lituania, che ha il 20 per cento di popolazione russofona, esattamente come per l’Estonia (30 per cento) e soprattutto per la Lettonia (quasi il 40 per cento). La Lituania ha peraltro ripetutamente chiesto, anche per bocca del suo capo di Stato Dalia Grybauskaite, un presenza maggiore di soldati alleati di quella invece approvata dalla Nato.
[**Video_box_2**]Dall’inizio del conflitto russo-ucraino, Mosca ha infatti aumentato significativamente la sua presenza militare nell’enclave di Kaliningrad, che confina con la Lituania. Lo scorso dicembre i russi hanno mandato a Kaliningrad 9000 soldati e 55 navi militari. Anche per questo il parlamento di Vilnius, qualche settimana fa, ha approvato la reintroduzione, per i prossimi cinque anni, dell’obbligo di leva, abolito nel 2008. A partire da questo settembre vi saranno dunque 3500 nuovi coscritti che presteranno servizio militare per nove mesi. Il capo di Stato ha salutato questa decisione come un importante e urgente passo: “Lungo i nostri confini si sta venendo a creare una situazione sempre più rischiosa. E non si tratta solo di una priorità, ma anche di un nostro preciso dovere garantire la sicurezza nazionale”.