La lezione di Westgate che il Kenya sotto attacco non ha imparato
Bruxelles. “Il Kenya è sicuro”. Mercoledì, alla vigilia dall’attacco del gruppo somalo al Shabaab contro l’Università di Garissa, che ha provocato la morte di 147 studenti con una selezione spietata tra musulmani e non musulmani, il presidente Uhuru Kenyatta aveva invitato i turisti ad accorrere nel suo paese, accusando i governi di Regno Unito e Australia di “mentire”, dopo gli avvertimenti lanciati ai loro cittadini su un pericolo di un attentato imminente e le critiche per la mancanza di trasparenza sulla sicurezza. La minaccia giovedì si è trasformata in realtà a Garissa, una delle zone sconsigliate ad australiani e britannici. Del resto, da una settimana i servizi di sicurezza erano in massima allerta per l’intrusione di alcuni estremisti di al Shabaab per vendicare la morte di Adan Garar, il capo delle operazioni esterne del gruppo, ucciso da un drone americano. Eppure, il 1° aprile, davanti a una platea di investitori, Uhuru Kenyatta non aveva mostrato dubbi: “Il Kenya è sicuro come ogni altro paese al mondo. I consigli di viaggio pubblicati dai nostri amici non sono leali”. Il presidente keniota aveva spiegato che avvertimenti simili non erano stati indirizzati nel caso della Francia, “recentemente colpita da un attacco terroristico”.
Anche se involontariamente, Kenyatta ha fatto il giusto parallelo: come la Francia ha sottovalutato i prodromi degli attacchi contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher a Parigi (il massacro di Mohammed Merah a Tolosa e Montauban nel 2012 e l’assalto di Mehdi Nemmouche contro il museo ebraico di Bruxelles nel 2014), così il Kenya non ha imparato la lezione del Westgate Mall. Nel settembre del 2013 un gruppo di terroristi di al Shabaab assediò uno dei centri commerciali più frequentati dagli occidentali di Nairobi, provocando la morte di almeno 67 persone. La spietata selezione religiosa al Westgate era stata la stessa dell’Università di Garissa. “I mujaheddin hanno condotto un esame meticoloso (…) per separare i musulmani dagli infedeli”, aveva detto un portavoce di al Shabab in un’email all’Associated Press. Dopo il Westgate, nel 2014, ci sono state le decine di vittime di Mombasa, Lamu e Mandera. Il Kenya “non ha appreso nulla in termini di come rispondere agli attacchi terroristici”, ha spiegato alla Deutsche Welle Peter Aling’o dell’Institute for Security Studies.
In difficoltà in Somalia contro la forza militare dell’Unione Africana e in competizione con brand islamisti più alla moda, “al Shabab ha bisogno di una guerra di civiltà in Kenya tra cristiani e musulmani per mantenere la sua rilevanza”, ha spiegato all’Economist Ken Menkhaus, esperto al Davidson College in North Carolina. Più preoccupato dal turismo che dalla sicurezza, Kenyatta ha risposto con misure inefficaci. Il muro che dovrebbe essere costruito al confine con la Somalia coprirà solo un terzo della frontiera. La sostituzione del capo della polizia e del ministro dell’Interno a dicembre non ha prodotto risultati. L’Alta Corte ha bocciato alcune parti di una nuova legge anti-terrorismo. Secondo Peter Aling’o, c’è un “anello mancante che sta rendendo il Kenya estremamente vulnerabile”: le informazioni di intelligence ci sono, spesso fornite da paesi alleati, ma Nairobi non è in grado di usarle e reagire. Il sospetto di alcuni è che il presidente keniota preferisca strumentalizzare il terrorismo a fini politico-etnici-religiosi: dopo l’attacco a Lamu del 2014, nonostante la rivendicazione di al Shabab, Kenyatta aveva accusato l’opposizione guidata da Raila Odinga, che ha il sostegno di una parte della comunità musulmana.