I killing fields di Saddam
Tikrit, dal nostro inviato. A metà giugno scorso lo Stato islamico si trova per le mani circa millesettecento reclute irachene. Il numero non è preciso perché il capo del gruppo, Abu Bakr al Baghdadi, ordina di lasciare andare i prigionieri sunniti in segno di clemenza e di uccidere quelli sciiti che sono la maggioranza. In quei giorni lo Stato islamico sta avanzando dal nord dell’Iraq, ha preso Mosul, ha preso Tikrit, l’esercito nazionale è allo sbando. I generali della vicina base militare Speicher (il nome del primo pilota americano morto durante la prima guerra del Golfo nel 1991, i suoi resti sono stati trovati nel 2009, la base è stata un aeroporto militare americano durante la guerra – quella di mezzo) si dileguano e lasciano i cadetti a loro stessi. Sono tutti giovani, diciotto-vent’anni, un tipo che s’incontra dovunque: jeans attillati, gel nei capelli, maglietta di una squadra di calcio.
Lasciati senza ordini escono dalla base con la divisa sotto gli abiti civili con l’intenzione di tornare alle loro case. Alcuni abitanti di Tikrit li raggiungono, li convincono a radunarsi docili verso la stazione degli autobus, e dicono che lì ci sono dei mezzi per andare verso sud. Invece è una trappola, quelli che stanno parlando appartengono ai clan tikriti locali, sono nostalgici di Saddam Hussein, iscritti al disciolto partito Baath, rimpiangono i tempi del dittatore quando i sunniti erano al potere e vedono il governo sciita di adesso – e quindi anche i soldatini – come un oppressore che li ha strappati dalla posizione di privilegio e dal controllo del petrolio di cui hanno goduto per decadi. E considerano lo Stato islamico che sta arrivando da nord e dal confine siriano come un giusto e brutale castigo per l’arroganza degli sciiti filoiraniani.
Nel giugno dell’anno scorso lo Stato islamico ha portato più di mille cadetti iracheni nella tenuta di Saddam Hussein a Tikrit
Lo Stato islamico prende in consegna i cadetti, li fa marciare attraverso Tikrit (su YouTube usciranno i video girati con i telefonini dagli abitanti sbigottiti) e decide di portarli dentro la tenuta residenziale che fu di Saddam Hussein, il dittatore catturato dagli americani nel dicembre 2003 e giustiziato dal governo a guida sciita nel 2006. La scelta del luogo dice tutto: davanti al problema dell’eliminazione di massa dei prigionieri, lo Stato islamico li scarica dai camion – dopo un tragitto dalla città che non è durato più di dieci minuti – proprio tra i ventisette palazzi e i giardini in stile neobabilonese che affacciano sul fiume Tigri. Alcuni tra i sequestratori del gruppo jihadista hanno lavorato in precedenza con Saddam in quel sito. Lo conoscono come casa loro.
Cominciano a circolare su Twitter notizie di una fucilazione di massa senza precedenti in Iraq, ma Twitter non è una fonte. Poi arrivano alcune foto a confermare. Quaranta giorni dopo esce anche un video prodotto con la professionalità consueta dal braccio mediatico dello Stato islamico, al Furqan. L’hanno chiamato “Secondo la metodologia dei profeti” (sottinteso: “Noi agiamo secondo la”), dura trentasei minuti e le scene della strage occupano soltanto i quattro minuti e mezzo finali. Non è chiaro perché lo Stato islamico ha scelto di non dedicare più minutaggio all’evento traumatico che sta definendo questa guerra – perché in Iraq il massacro è vissuto come un evento storico che ha cambiato politica e opinione pubblica. Forse è perché al Furqan non vuole eccedere con il gesto ripetitivo dell’uccisione – e comunque quei quattro minuti e mezzo di video mostrano la morte efferata di almeno cento prigionieri. O forse è perché non vuole rivelare troppi dettagli sul gruppo che ha materialmente commesso la strage. In ogni caso un paio di facce si vedono e sono riconoscibili, in mezzo agli uomini in passamontagna: non sono jihadisti, sono baathisti locali, sono irriducibili noti per il loro sostegno al partito di Saddam.
Il gruppo che ha ucciso i cadetti iracheni nella tenuta di Saddam era formato da ex baathisti poi entrati a far parte dello Stato islamico
Lo Stato islamico mescolato al partito Baath locale ha distribuito il massacro in almeno cinque siti all’interno della tenuta, nel raggio nello stesso mezzo chilometro di sponda ovest del Tigri. Sono l’equivalente iracheno dei “killing fields”, come erano chiamati i luoghi dove i Khmer rossi eseguivano i loro massacri in Cambogia. Uno di questi siti è il palazzo che affaccia sull’acqua, sotto il ponte dell’autostrada – che adesso è tagliato in due da una bombardamento. Oggi i gruppi paramilitari sciiti che hanno ripreso Tikrit assieme all’esercito scendono al palazzo sul fiume, arrivano agli stessi gradini scesi dai cadetti quel giorno e fanno tutti lo stesso gesto: si affacciano dal punto dove i cadetti sono stati giustiziati e scaraventati in acqua e guardano sul muro che scende nel fiume la colata di sangue, ancora lì, nera e ossidata in dieci mesi di tempo. In quel tratto l’acqua del Tigri che è lenta al punto dell’ipnosi batte contro i piloni del ponte, crea un mulinello e accelera verso sud, verso Baghdad. Gli uomini dello Stato islamico potrebbero avere visto in questa banchina una chance per sbarazzarsi dei cadaveri in modo più comodo, senza doverli coprire di terra fila per fila con un bulldozer come con gli altri, quelli dei trucidati nei giardini, e lasciandoli cadere nella corrente. O forse hanno visto l’occasione per una buona inquadratura. Sopra la banchina c’è una balaustra con ringhiera. Oggi i militari lì indicano con il dito, “la loro telecamera era là”. Tutti in Iraq hanno visto il video. O forse, ancora un’ipotesi: volevano che la corrente del Tigri annunciasse la strage, portando i corpi dei cadetti verso la capitale come è infatti accaduto.
Una parte dei cadetti è stata uccisa dallo Stato islamico su questa banchina di un palazzo di Saddam che affaccia sul fiume Tigri
Se da una parte del fronte ci sono i baathisti che hanno fatto dieci anni di guerra contro l’Iran negli anni Novanta e ora si sono arruolati tra gli estremisti islamici (come minoranza sparuta, ma con ruoli di spicco), dall’altra ci sono in maggioranza i gruppi di iracheni filoiraniani. Passano per le strade lanciando cioccolatini dalle auto blindate, si scattano selfie ovunque, scaricano la responsabilità per gli incendi e i saccheggi a Tikrit su “famiglie di sunniti che volevano vendicarsi sui collaboratori locali dello Stato islamico”. Sulle loro cover dei telefoni c’è la faccia dell’ayatollah Khomeini, sulle loro bandiere gialle c’è Zulfiqar, la spada di Ali, figura più importante dello sciismo, che copre la mappa stilizzata dell’Iraq, dalle loro radio arrivano gli inni religiosi sciiti (cenno breve su come riconoscerli da quelli sunniti: sotto alle voci c’è un battito pulsante per tutta la canzone, è il ritmo che seguono i penitenti che si battono durante le ricorrenze religiose, e ci sono anche gli strumenti musicali, che invece sono vietati nei canti jihadisti). Per Tikrit in queste settimane passa (anche) una linea di faglia che separa due forze storiche, è la ripresa di una guerra tra i farsi e arabi, gli ayatollah e i saddamisti, gli sciiti e i sunniti che non era mai finita, era in pausa.
Arrivo nelle camerate dei cadetti della base Speicher per caso. Lasciando Tikrit di sera l’autista sbaglia e imbocca la strada che va verso nord e verso Beiji, dove lo Stato islamico combatte per il controllo della più grande raffineria di greggio del paese, quando realizza l’errore a un posto di blocco torna verso sud. E’ buio completo, l’uomo ogni tanto accende soltanto i quattro lampeggianti per vedere la strada e per questo va lento, fino a quando dai lati sbuca un gruppo di combattenti con i kalashnikov puntati. Loro credono che noi siamo “Daesh!”, noi non vediamo nel buio, però sono della brigata sciita Imam Ali e dopo avere raggiunto la certezza che è tutto in regola ci portano alla loro base perché la strada che porta a Baghdad a quell’ora è troppo pericolosa. La base è incidentalmente in un edificio che ospitava le camerate dei cadetti uccisi. Alle pareti ci sono i poster dei jet militari. C’è la mensa con i tavoli e le sedie vuote. All’esterno c’è un murale eroico con i colori iracheni, un jet e un casco di pilota che in inglese scorretto dice: “Iraqi Air Forse”.
Uno dei baathisti locali riconoscibili nel video della strage si chiama Nasser Al Mouna, è sullo sfondo a parlare con il telefonino – nel filmato non è il solo a parlare al telefono, chissà cosa dicevano, probabilmente stavano ricevendo istruzioni da altrove. Sapevano che quello che stavano facendo avrebbe causato un trauma e che faceva parte della proiezione di potenza dello Stato islamico, che da lì a meno di due settimane si sarebbe dichiarato “Califfato” e per questo aveva bisogno di fatti eccezionali. I cadetti sono finiti nelle mani del gruppo nel momento più sbagliato, al picco dell’ambizione e dell’espansione, quando c’era da dimostrare spessore davanti alla storia. “Siamo come i profeti”, non trattiamo con il nemico.
Lo stesso sito oggi. I gruppi paramilitari sciiti che hanno ripreso il controllo di Tikrit esaminano il luogo dell’uccisione di massa (foto dan.ra)
Nasser al Mouna è un energumeno baffuto che sei mesi più tardi è riapparso nella propaganda dello Stato islamico, questa volta con intenzione e vestito pure di nero nella foggia jihadista, mentre decapita un iracheno sulla rotonda di Tikrit. Il suo è soltanto uno dei casi conosciuti di baathisti lasciati a spasso dalla caduta del regime e poi riemersi dentro al gruppo di Baghdadi. Un altro paio di nomi illustri: ci sono Abu Ali al Ambari, il capo del gruppo per le operazioni in Siria, e Abu Ali al Turkmeni, capo del gruppo per le operazioni in Iraq, forse morto (in ogni caso: entrambi operavano al massimo livello, appena sotto al Baghdadi). Era baathista anche Haji Bakr, l’eminenza grigia di Abu Bakr al Baghdadi, anzi, l’uomo che lo ha fatto diventare leader del gruppo nell’aprile 2010. Haji Bakr era un colonnello dell’aviazione con i baffetti scuri che si è riciclato nel jihad come responsabile della sicurezza interna, quindi vale a dire di tutte quelle procedure prese dal mondo dell’intelligence che assicurano comunicazioni non intercettate fra i leader, spostamenti in incognito, fedeltà assoluta nei ranghi, eliminazione spietata e anticipata dei potenziali traditori. E’ stato Bakr a convincere il consiglio direttivo del gruppo a nominare capo al Baghdadi contro il parere stesso di Osama bin Laden (la fonte di quest’ultimo dettaglio è una biografia di Baghdadi scritta dal giornalista iraniano Ali Hashem). Baghdadi aveva bisogno di lui, perché lo Stato islamico era in crisi, era arrivato a contare trecento uomini circa. Gli ex militari baathisti hanno contribuito a riorganizzarlo secondo schemi militari, e si vede. Quando è morto, Haji Bakr aveva una lunga barba bianca e, dicono i ribelli siriani che l’hanno ucciso, aveva anche una bottiglia di whiskey in casa.
Questo filobaathismo non va bene a tutti dentro al gruppo. Da tempo nei forum del jihad girano piccoli pamphlet scritti da dissidenti ed ex membri che hanno cambiato fazione, e spiegano come i baathisti abbiano preso il sopravvento dentro allo Stato islamico – una nozione che è da prendere con cautela, considerato che l’intento di questi scritti è comunque diffamare il gruppo rivale. Due giorni fa la corrispondente da Beirut del Washington Post, Liz Sly, ha scritto un pezzo lungo in cui spiega che la sicurezza interna dello Stato islamico è affidata a un nucleo di ex ufficiali iracheni ai tempi di Saddam. La sua fonte è un ex appartenente allo Stato islamico che ora si fa chiamare Abu Hamza ed è fuggito in Turchia proprio perché in disaccordo con questi commissari politici interni, che partecipavano alle riunioni muti e a volto coperto, prendendo note sui loro quaderni. Abu Hamza dice che per ogni capo dello Stato islamico in Siria c’è almeno un vice iracheno e baathista – ed è lui a prendere davvero le decisioni.
Quanto c’è di vero? Il dato certo è questo: quando le dittature arabe creano e addestrano un apparato segreto di sicurezza, poi quello sopravvive alla loro fine. Continua a operare secondo lo stesso programma e a colpire i nemici, anche se hanno preso il posto che era il loro al potere e sono al governo. Colpiscono con quello che hanno a disposizione, pure indossando il passamontagna del jihad. Un’altra intervista interessante, questa volta fatta a dicembre da Martin Chulov del Guardian, spiegava che baathisti e jihadisti iracheni lavorano assieme fin dal 2009, quando lanciarono un paio di operazioni congiunte dentro Baghdad (camion bomba contro i palazzi dei ministeri). L’illusione che dodici anni fa fosse bastato una firma dell’americano Paul Bremer nel 2003 per cancellare il partito di Saddam e i suoi uomini, con la legge cosiddetta della debaathificazione, scompare definitivamente a Tikrit. Quelli tornano, non se ne erano mai andati.
Su questo tema l’intervista più bella è stata fatta un anno fa, a marzo, da Matt Bradley del Wall Street Journal, che parlò con un generale iracheno passato allo Stato islamico a Falluja. Il generale sfogava tutta la sua frustrazione per essere stato lasciato senza un ruolo nel nuovo Iraq e per essersi ridotto a combattere contro la sua stessa divisione. “Tutte le volte che combatto penso ‘Sono io, idioti’”, all’indirizzo degli ex commilitoni. “Poteva andare diversamente”.
L'editoriale dell'elefantino