Il mercato nero di Pyongyang e la propaganda umanitarista indo-cinese
Salvate il soldato Modi. La Cina e l’India stanno concludendo in queste ore le operazioni di evacuazione dei propri cittadini dallo Yemen, colpito dai bombardamenti della Operation Decisive Storm dei sauditi. La Cina, in Yemen, aveva seicento suoi connazionali. Ma sulla fregata della marina cinese giovedì scorso sono stati messi in salvo anche i residenti provenienti da dieci diversi paesi, compresi due cittadini italiani, come confermato dalla Farnesina. Insieme a loro 174 pachistani, 29 etiopi, due inglesi, tre tedeschi. E’ la prima volta che una nave militare di Pechino mette in salvo, in un’operazione umanitaria, cittadini non cinesi. Qualche giorno dopo l’India ha dato il via a una delle più grandi operazioni di salvataggio in un’area di conflitto. Quattromila indiani da evacuare con un intervento via mare e via aerea – si chiama Operation Raahat – talmente efficace che ventitrè paesi hanno chiesto l’aiuto indiano per salvare i propri cittadini dallo Yemen. Il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha scritto su Twitter di essere orgoglioso del fatto che l’India stia salvando così tante persone non indiane (nulla ha detto, però, sugli undici indiani riportati a casa dall’esercito pachistano). L’operazione di Nuova Delhi è coordinata direttamente con l’esercito di Salman che assicura le finestre per le operazioni – il tutto è ben descritto sulla stampa indiana. Gli interventi di salvataggio dall’area di conflitto sono infatti anche motivo di propaganda, specie per l’India: come ha scritto Ankit Panda sul Diplomat, Nuova Delhi sta cercando di ritagliarsi il ruolo di “first responder” nell’Oceano indiano – efficacia cinese permettendo.
Il problema è sempre lo stesso, e ovunque: lotta al terrorismo vs. libertà personali. La Malesia ha appena approvato in Parlamento una legge (Prevention of Terrorism Act) che permette l’arresto fino a due anni di una persona sospettata di attività terroristiche ancor prima del processo – una risposta all’incremento dei cittadini malesiani che si uniscono allo Stato islamico, 92 persone arrestate dal febbraio del 2013. Il timore delle associazioni per i diritti umani è che la legge possa essere usata per scopi politici.
Indonesia e Australia ai ferri corti. Il primo ministro australiano Tony Abbott ha chiamato il presidente Joko Widodo molte volte, a fine marzo. Voleva chiedergli di concedere la grazia ai due cittadini australiani, Andrew Chan e Myuran Sukumaran, condannati in Indonesia alla pena di morte per traffico di droga. Jokowi non ha mai risposto a quella telefonata, ha fatto sapere di essere stato “molto impegnato”, riporta l’Afp. Ieri il tribunale indonesiano ha respinto l’ennesimo ricorso dei legali dei due condannati, e secondo il New York Times è ormai molto difficile trovare una soluzione legale alla questione. John McCarthy, ex ambasciatore australiano a Jakarta, in un articolo su East Asia Forum ha spiegato che l’esecuzione (per fucilazione) dei due cittadini australiani comprometterà i già difficili rapporti tra Canberra e Jakarta.
La parola chiave è jangmadang. In Corea del nord è il termine che definisce il mercato nero-ma-tollerato: il mercato libero, insomma. E’ talmente comune che è diventato sinonimo di mercato e basta. A vendere i prodotti sono tradizionalmente le donne che spesso con la loro attività guadagnano più dei mariti. Anzi: è una prassi diffusa tra i maschi di famiglia prendersi l’aspettativa dal lavoro (statale, manco a dirlo) e andare a fare jangmadang in giro per il paese. L’affresco che si fa della Corea del nord in “North Korea Confidential” di Daniel Tudor e James Pearson è tutt’altro che banale. Un libro – appena uscito per Tuttle Publishing – che tenta di superare i racconti dell’orrore dei rifugiati nordcoreani, di chi scappa dai campi di lavoro (racconti spesso enfatizzati per compiacere il giornalismo occidentale), e cerca di raccontare per esempio quanto costa una bottiglia di Coca-Cola al mercato (6 mila won nordcoreani, poco più di sessanta centesimi a bottiglia), cosa si fa la sera a Pyongyang – eumjugamu, che vuol dire “bere, musica e ballo”, una tradizione coreana di cui si sente la cultura anche al nord, scrivono Tudor e Pearson. Le didascalie alle bellissime foto raccontano, molto più di centinaia di articoli, il paese più isolato del mondo.
A scuola di nazionalismo. Tutti i testi scolastici per il nuovo anno accademico approvati dal ministero dell’Istruzione giapponese conterranno riferimenti espliciti alle isole Senkaku (quelle reclamate dalla Cina con il nome di Diaoyu) e alle isole Takeshima (oggi sotto il dominio sudcoreano con il nome di Dokdo ma reclamate dal Giappone). Le tensioni territoriali tornano prepotentemente sulle cronache del Pacifico.
Per capire la crisi tra il Giappone e la Cina, soprattutto alla luce degli eventi più recenti, è uscito ieri “Intimate Rivals: Japanese Domestic Politics and a Rising China”, l’ultimo lavoro di Sheila A. Smith, Senior Fellow del Council on Foreign relations per gli Studi giapponesi.