Realismo e ideali
L'asse con Sisi mette alla prova la dottrina Obama (sempre che esista)
New York. La settimana scorsa Barack Obama ha riaperto il rubinetto dei fondi destinati all’Egitto (1,3 miliardi di dollari l’anno) già approvati dal Congresso e ha scongelato la commessa di armi ferma dall’ottobre del 2013, quando la Casa Bianca non sapeva se definire la presa del potere del generale Abdel Fattah al Sisi un colpo di stato. In quel caso, Washington avrebbe dovuto sospendere definitivamente gli aiuti, ché la logica dei fondi per gli alleati è promuovere la crescita di istituzioni democratiche e l’espansione del mercato, non foraggiare la fazione che prende il potere con i carri armati. Molte cose sono cambiate nel frattempo: Sisi si è imposto come pivot della guerra contro lo Stato islamico, contraltare teologico dell’islam radicale, promotore di investimenti stranieri con il forum economico di Sharm el Sheikh, alla presenza del segretario di stato, John Kerry (l’unico capo di un governo straniero era Matteo Renzi). Così l’America ha deciso di fornire all’esercito egiziano gli F-16, i missili Harpoon e i carri armati che aveva promesso, e non perché le Forze armate del Cairo ne avessero un bisogno immediato: gli armamenti di cui Sisi dispone al momento sono sufficienti per le operazioni in corso, e Washington offre sostegno per le manovre antiterrorismo a prescindere dal flusso ordinario degli aiuti militari. Sisi voleva dall’America una legittimazione politica, dopo aver fatto capire con viaggi, incontri bilaterali, e trionfanti photo opportunity che avrebbe trovato altrove l’abbraccio che l’America concedeva solo a metà, e per altrove s’intende in Russia e Cina. Obama ha concesso la sua benedizione, trasformando l’Egitto nel banco di prova della sua dottrina, ammesso che una dottrina esista.
La piena legittimazione di al Sisi è la manifestazione plastica della ritrosia di Obama per l’azione diretta, la tendenza all’uso della strumentazione diplomatica e dello “smart power” con interlocutori di qualunque natura e colore, purché gli interessi del momento convergano. Nel comunicato della Casa Bianca dopo la telefonata con Sisi ci sono obbligati riferimenti agli “arresti di attivisti non violenti e a processi di massa” in Egitto, ma la sostanza è chiara tra le righe: Obama ha bisogno di al Sisi, e ne ha bisogno più di quanto al Sisi abbia bisogno di lui. Per combattere le guerre che Obama non vuole combattere e garantire stabilità alla regione, Sisi è giudicato un partner affidabile con cui fare affari nonché un argine naturale all’islam politico che va a braccetto con il terrorismo fondamentalista.
“Sisi non è certo un liberale – scrive il Wall Street Journal – ma ha evitato all’Egitto quel lento colpo di stato islamista che Morsi stava cercando di imporre”. L’espansione dell’influenza dello Stato islamico in Libia – e la conseguente reazione egiziana – non ha fatto che aumentare il peso specifico della leadership di Sisi. Non solo: il presidente egiziano è anche l’uomo d’ordine al quale Israele si rivolge per garantire la sicurezza e fin qui ha con successo fermato il flusso di armi che dall’Iran arrivano a Gaza. Dopo il pre-accordo nucleare con l’Iran firmato da Washington in aperta opposizione ai desiderata di Gerusalemme, Obama ha bisogno di dimostrare al contrariato che l’America sostiene Israele nei fatti almeno quanto il presidente lo sostiene nelle interviste con Thomas Friedman.
[**Video_box_2**]Nella logica realista di Obama, Sisi è il mediatore perfetto per passare il messaggio. La manovra fa storcere il naso a liberal e neocon. Per lo storico neoconservatore Robert Kagan l’alleanza con al Sisi dimostra che Obama aderisce a una dottrina, la dottrina Nixon, il presidente che voleva la “vietnamizzazione” del conflitto vietnamita e chiedeva agli alleati asiatici di prendersi cura della propria sicurezza, con il generoso sostegno dei dollari americani: “L’idea di sostenere i dittatori nella guerra per procura contro l’islam radicale nel medio oriente non è nuova; e non è un segreto che questa idea abbia fallito”. L’America, ricorda Kagan, ha sostenuto i regimi in seno ai quali sono cresciuti i peggiori nemici dell’America, dalla Persia dello Scià all’Egitto di Mubarak.