Ecco cosa guardare quando Obama e Castro si stringono la mano
Roma. Un lavoraccio silenzioso da maggiordomo discreto. Far funzionare il piano B, se il piano A si mostrasse impraticabile. Questo ha chiesto Barack Obama a Roberta Jacobson, la responsabile del dipartimento di stato degli Stati Uniti per l’America latina e, al momento, la fiduciaria presidenziale per la ricucitura dei rapporti di Washington con l’Avana e con Caracas.
Al vertice delle Americhe che si tiene oggi e domani a Panama, in cui la novità è la riammissione di Cuba e la vera incognita la temperatura degli scambi verbali tra americani e venezuelani, il grande evento è la partecipazione di Obama e Castro a un tavolo comune. Quello sarà il suggello allo scongelamento reale dei rapporti diplomatici tra i due paesi, bloccati da cinquant’anni, dichiarati in via di disgelo dal 17 dicembre su iniziativa statunitense e, sorrisi a parte, ancora tutti da scongelare.
Se però l’aria dovesse farsi pesante, se il tavolo comune dovesse sfumare, allora la Jacobson ha il compito di mandare in porto il piano B: deve riuscire a far incontrare Barack Obama e Raúl Castro “per caso”, senza che la casualità sembri troppo inverosimile. L’idea è di fare come ai funerali di Mandela. I due si incrociano camminando, senza incontro formale, si salutano e già che son lì si parlano. A Johannesburg funzionò. Obama tese la mano. Raúl la strinse con un sorriso, il sorriso del dollaro. Era dal primo gennaio del 1959 “el día del triunfo de la Revolución” che non si vedeva Raúl così contento. Fu il primo contatto fisico tra i due nemici storici dopo la Rivoluzione cubana. Riuscirci anche questa volta, dribblando i boicottaggi, è facile a dirsi per la Jacobson, ma non a farsi.
Dalla delegazione venezuelana a Panama – sempre informatissima sul reale stato della tresca Obama-Castro perché composta da sherpa pagati per aprirlo a un rapporto a tre (Caracas vuole salvarsi, non andare a fondo, Obama sta tendendo la mano anche a loro e infatti Thomas Shannon del dipartimento di stato si è precipitato a Caracas, non a Panama) – confermano al Foglio si stanno verificando gli ultimi dettagli per capire se sia il caso di annunciare, prima della riapertura della sede diplomatica americana all’Avana e cubana a Washington, il depennamento di Cuba dalla lista degli stati considerati dagli Stati Uniti protettori del terrorismo internazionale. Farlo significherebbe accettare a braccia aperte la richiesta fatta da Raúl Castro. Obama ha detto ieri che la richiesta di revisione della posizione di Cuba nella lista è stata inviata dal dipartimento di stato alla Casa Bianca, ma nessuna decisione è stata ancora presa.
Chi è nella lista patisce restrizioni pesanti all’accesso agli aiuti allo sviluppo e al credito internazionale. Le banche di paesi terzi sono restìe a realizzare operazioni con i membri della lista perché possono subire sanzioni. E’ successo alla banca francese Bnp Paribas. Multa salata in dollari per aver realizzato transazioni con l’Iran, il Sudan e Cuba. A Cuba è formalmente in vigore l’embargo statunitense e le conseguenze di essere tra gli stati filoterroristi dovrebbero già essere incluse in quelle conseguenti all’embargo. Eppure Raúl Castro tiene molto a essere tolto dalla black list. E non per motivi formali.
“Come spiegare il ripristino delle relazioni diplomatiche senza togliere Cuba dalla lista degli stati patrocinatori del terrorismo internazionale?”, domandava esplicitamente Raúl il 29 gennaio nel suo intervento al terzo vertice Celac, il vertice degli stati latinoamericani e dei Caraibi. Era una condizione in più posta a Obama, secondo la solita ricetta castrista del non cedere visibilmente su nulla mentre in realtà si sta trattando su tutto.
[**Video_box_2**]La richiesta di Raúl non è simbolica, è terribilmente concreta. Poiché l’embargo, deciso dalla legge Torricelli e confermato dalla Helms-Burton nel 1996, non si può abbattere a picconate senza fare i conti con la parte del Congresso statunitense (non necessariamente tutta repubblicana) che non vuole abolirlo, allora è meglio svuotarlo poco a poco di efficacia concreta. Su questo punto gli smaniosi potenziali investitori americani a Cuba e il regime cubano sono d’accordo. E non da ieri. L’embargo, nella sostanza, è già abbondantemente aggirato. Chiunque riesca a buttare un’occhiata nell’area protetta dei porti cubani può notare quanti container arrivino, per vie traverse, dagli Stati Uniti. Non sono tutti pieni di aiuti umanitari. C’è un commercio già fiorente (ma costoso, perché aggirare l’embargo costa) tra Cuba e gli States, realizzato con il solito metodo della triangolazione. Io vendo a te, che vendi a lui, che non può comprare direttamente da me perché io gliel’ho vietato. Un sistema vecchio come il mondo. Che a Cuba funziona da decenni. Ma costa troppo a chi vende, perché i costi della triangolazione il regime li accolla all’aspirante venditore.
Il problema dei diritti umani
Il fatto che triangolare merci e denaro con Cuba possa non essere più necessario per commerciare con l’isola non fa piacere a tutti. E’ questo il punto che più indispone una parte degli anticastristi di Miami che sanno bene, alcuni per essercisi arricchiti, quanti guadagni siano cresciuti finora nelle pieghe della triangolazione con uno stato terzo, di solito Panama o il Messico, di solito attraverso holding fantasma, per far arrivare prodotti vari a Cuba.
Anche l’annunciata riapertura della rappresentanza diplomatica ufficiale statunitense all’Avana potrebbe essere impedita fino a una revisione della legge sull’embargo. Chi vuole mettere il bastone tra le ruote a Obama ha gioco facile perché è innegabile che in cambio delle sue aperture il presidente americano non ha ricevuto nessun ammorbidimento sulla questione della libertà di espressione e sul rispetto dei diritti civili. Su questo scoglio sono naufragate le missioni diplomatiche segrete tra i due paesi negli ultimi cinquant’anni.