Il potere della tigna
Milano. Cocciutaggine, ostinazione, puntiglio. Basta la tigna per vincere le elezioni? Questa è la domanda che ci facciamo guardando Hillary Clinton che si posiziona in vista delle presidenziali del 2016, il suo secondo tentativo, l’ultimo – e ci aspettiamo una risposta liberatoria. Sarebbe una bella storia da raccontare, quella della donna che voleva tantissimo la presidenza degli Stati Uniti, è sopravvissuta a tutto, agli scandali, alle corna, all’outsider, all’infelicità, per poi farcela, diventando la portavoce di “quelli che sono caduti e si sono rialzati” e di “quelli che ha sempre lavorato tanto e non si è mai arreso” (sono slogan del 2008). Sarebbe una bella storia da raccontare, american dream dotato di tigna, messaggio sublime, se Hillary non si chiamasse Clinton, se non ci fosse a sostenerla la potenza della macchina elettorale dinastica, se non ci fosse la perizia con cui ha costruito passo a passo l’ascesa, con cui ha gestito le cadute, con cui si presenta ancora lì, dove nessuno la vuole – i democratici anestetizzati dall’obamismo dicono cose terribili su di lei, ma non hanno ancora costruito un’alternativa credibile – e dove lei s’ostina a esserci. La tigna è la grandezza di Hillary, la tigna è la sua condanna.
Nell’ultima settimana si è parlato molto della Clinton, apparsa sulla copertina del magazine di Politico, del New York e oggi quella dell’Economist. Si è riconsolidata l’idea che la sua candidatura ufficiale è ormai imminente da quando ha preso in affitto degli uffici a Brooklyn, due piani all’One Pierrepont Plaza (visionati due settimane prima dalla collaboratrice più fidata, la bella e sfortunata Huma Abedin) destinati a ospitare le circa 35 persone dello staff che, come ha raccontato Politico, per la maggior parte vive sui divani di parenti e amici a New York, aspettando un contratto di diciotto mesi rinnovabile e soprattutto un telefono (sono anonimi ovviamente, non possono parlare apertamente di una campagna che non c’è). Gli “Hillary-ologi”, i tanti che si occupano dell’ex first lady, ex senatrice, ex segratario di stato, guardano l’agenda della signora per capire quale sarà il momento dell’annuncio, incrociano vertici e superstizioni, sperando che i big data si rivelino utili anche a svelare questo segreto, mentre si moltiplicano i sondaggi per valutare la tenuta di Hillary negli stati contesi e per capire se “la donna non giovane, non nera e non gay” può avere successo in una corsa che per i democratici è già sulla carta difficile: sono alla Casa Bianca da otto anni. Ma l’entusisamo, ecco, quello è un’altra cosa.
Sul New York Magazine, Jason Zengerele racconta le ultime performance non eclatanti di Hillary, soprattutto la faccenda delle email mandate da un account di posta personale e poi cancellate, per spiegare, nell’ordine: che una scuola di pensiero sempre più consistente tra i politologi pensa che non importa più di tanto che uno sia un “good candidate”, deve essere in grado di vincere; che però la qualità del candidato a volte invece conta; che le gaffe o i brutti momenti in una campagna elettorale non cambiano l’esito finale, sono solo episodi effimeri; che però la costruzione di una campagna è la più difficile; che Hillary un po’ s’è cercata l’odio dei giornalisti; che però il suo primo obiettivo deve essere quello di evitare che tutti, giornalisti ed elettori, “continuino a sezionare le sue debolezze”. La conclusione perfetta, insomma, di un articolo fatto per sezionare le debolezze di Hillary. Più o meno dello stesso tono è l’editoriale dell’Economist, seppure più aggraziato: gli elettori non amano le incoronazioni ma la possibilità di scegliere, se Hillary vuole meritarsi “il lavoro che desidera tanto” deve rispondere a molte domande, perché la conosciamo da trent’anni ma ancora non sappiamo dire in che cosa crede veramente.
[**Video_box_2**]Alcuni dicono che tanta ossessione negativa nei confronti di Hillary le porterà fortuna: potrebbe essere vero in generale, tutti amano l’ostinazione, ma con la Clinton la faccenda è diversa. Perché lei pare finta, perché è già vista, perché un Clinton alla Casa Bianca pare più che sufficiente, perché una donna presidente sistemerebbe le coscienze maschiliste, ma questa donna forse no. In un libro appena uscito, “The Residence: Inside the Private World of The White House”, di Kate Anderson Brower, gli impiegati della Casa Bianca, dai cuochi ai giardinieri, raccontano quel che hanno visto e sentito dentro al palazzo americano. Mike Allen di Politico ha selezionato alcuni anedotti che riguardano i Clinton: “C’era sangue dappertutto sul letto del presidente e della first lady. Un membro dello staff ricevette una telefonata concitata dalla cameriera che aveva trovato tutto quel caos. Qualcuno doveva andare subito e ispezionare il danno. Il sangue era di Bill Clinton. Al presidente furono messi parecchi punti in testa. Lui insistette che si era fatto male andando a sbattere contro la porta del bagno nel mezzo della notte. Ma nessuno pareva convinto. ‘Siamo abbastanza certi che lei lo avesse colpito con un libro’”. Da poco era diventato pubblico l’affair di Clinton con una stagista della Casa Bianca, e c’erano almeno venti libri sul comodino, “compresa la Bibbia”. Ronn Payne, un fioriaio, ricorda di essere salito sull’ascensore di servizio e di aver sentito i due che litigavano, la first lady urlava ‘goddamn bastard’, e poco dopo ha udito il rumore di un oggetto pesante lanciato nella stanza. Leggenda vuole che lei gli avesse tirato una lampada. L’ex capo pasticciere della Casa Bianca, Roland Mesnier, ha detto che Hillary amava molto la “mocha cake”: durante lo scandalo Lewinsky, la first lady chiamava durante il pomeriggio, con una voce “senza pretese, molto diversa dal suo tono usuale, forte e sicuro”, chiedendo: “Stasera posso avere una ‘mocha cake’?”.
Hillary è una che mena il marito traditore, è una che piange chiedendo la torta preferita per consolarsi, è una di noi, con in più la tigna. E dissezionare le sue debolezze sembra ancora la storia più interessante da raccontare su di lei.