Dietro alla stretta di mano con Castro, i guai più grossi per Obama vengono dal Venezuela
La foto della stretta di mano in un hotel panameño tra John Kerry e Bruno Rodríguez, la prima dal 1958 tra due ministri degli Esteri degli Stati Uniti e di Cuba, circola nelle stanze di governo a Caracas come un santino da pregare. Se l'America vuole la pace con il suo nemico storico – è la tesi della Casa amarilla, la Farnesina venezuelana – perché dovrebbe volere la guerra con noi che quel nemico storico manteniamo a suon di petrodollari da 13 anni e lo continuiamo a rifocillare anche ora che siamo in bancarotta?
Quello in corso venerdì e sabato a Panama è per Obama l'ultimo vertice delle Americhe (sud e nord insieme, per la prima volta con Cuba al tavolo e grande star dell'incontro) prima del suo addio alla Casa Bianca. Tutta l'attenzione è sul suo atteso incontro con Raúl Castro, ma è a Caracas che la sua diplomazia sta giocando la partita per lui più complessa. Il presidente venezuelano Nicolás Maduro, prossimo alla canna del gas, non vuole rimanere fuori dalla porta al banchetto di riconciliazione tra Obama e Castro e tanto ha detto e tanto ha fatto che è riuscito a ottenere dal dipartimento di stato americano una missione di cinque giorni di Thomas Shannon, consigliere per gli affari latino americani. Shannon da martedì è a Caracas con il compito di sciogliere più nodi possibili con il governo Maduro senza far troppo infuriare l'opposizione antichavista, di casa a Miami.
Il Venezuela è avvitato in una crisi economica gravissima, le casse statali sono vuote, il mercato nero impazza. L'èra chavista sembra agli sgoccioli, ma il governo non cade nonostante sia debolissimo e ricattato da élites militari in guerra tra loro. L'opposizione è litigiosa al suo interno, sempre tentata da spallate violente e abituata ai metodi spicci tanto quanto la casta chavista che vuole sloggiare da Miraflores. I due dirigenti antichavisti ritenuti dal regime politicamente più insidiosi – il leader della destra di piazza Leopoldo López, che in passato golpista è stato davvero ma da allora sono passati tredici anni e il più pacato sindaco di Caracas, Antonio Ledezma – sono in galera, López da un anno e Ledezma da qualche mese, con accuse inconsistenti, chiaramente arrestati a causa della loro attività politica.
Con chi li tiene in galera Thomas Shannon deve trattare se vuol dialogare con il Venezuela. E come fare, senza fare un torto ad amici vicini e lontani che gli chiedono di non regalare nulla a Maduro, carceriere di oppositori? Cosa fa Obama, ignora la sfilza di ex capi di Stato che hanno messo la loro firma in calce a un appello per la liberazione del sindaco Ledezma? E d'altra parte, nemmeno un supereroe della diplomazia potrebbe riuscire a trattare con il governo chavista previo accordo di massima con l'opposizione venezuelana, che nella sua stragrande maggioranza quel governo vorrebbe messo al muro, non seduto a un tavolo. Come uscirne? La via è stretta.
[**Video_box_2**]Il dipartimento di stato ha spiegato la missione a sorpresa in Venezuela con un comunicato risicato: "Il governo venezuelano ha chiamato più volte al dialogo e noi sempre abbiamo mostrato con chiarezza di voler mantener relazioni diplomatiche e che siamo disposti a parlare direttamente". Il consigliere della Casa Bianca per le questioni di sicurezza nazionale, Ben Rhodes, s'è premurato di togliere i massi dal cammino della riconciliazione possibile. Dopo la decisione di Obama di rifiutare il visto a sette funzionari venezuelani il mese scorso e il polverone alzato dalla frase del comunicato ufficiale americano sul Venezuela "minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti", Rhodes ha fatto marcia indietro. Ha detto che quella è una espressione standard: "Il Venezuela non rappresenta nessuna minaccia per gli Stati Uniti". Persino a Obama a Panama è stata fatta ripetere la frase pacificatrice. Alla agenzia spagnola Efe il presidente americano ha spiegato: "Non è una minaccia per noi il Venezuela".
Ora, però, il povero Shannon se la deve vedere con chavisti e antichavisti, gli uni contro gli altri armati (pesantemente e per davvero) in quel circo delle belve che è Caracas. Lui intanto con l'opposizione s'è incontrato, ha chiesto di vederla tutta insieme all'ambasciata americana e si sono visti entrare solo i leader più potabili, quelli del Tavolo della Unità democratica, piattaforma antichavista. Quelli veri, quelli che poi, di fatto, sono gli unici a comandare le bande paramilitari nei momenti di tensione, non c'erano alla riunione con Shannon, dimostrazione evidente che l'incontro era di cortesia, non di sostanza, e che Shannon a Caracas è andato per Maduro, non per l'opposizione, che tra l'altro gli bussa alla porta un giorno sì e l'altro pure a Washington. Delusissimi gli invitati all'uscita. Jesus Torrealba, segretario della Unidad democratica, ha definito Shannon "precisino e laconico". Ed è stato uno dei più gentili.
Luis Marin, avvocato e professore universitario, uno dei referenti della militanza antichavista, dice al Foglio: "Cosa ci si poteva aspettare? Non hanno obiettivi chiari in Venezuela a Washington. E' imbarazzante ascoltare i lamenti della signora Roberta Jacobson (responsabile del dipartimento di stato per l'America latina, n.d.r.) per il modo in cui qui si demonizzano gli Stati Uniti. Pare la Jacobson non sappia che questa è una politica utilizzata instancabilmente da Fidel Castro da prima che lei e il presidente Obama venissero al mondo". Bisognerà misurare la temperatura delle reazioni venezuelane al Vertice di Panama per capire quanti ragni Thomas Shannon è riuscito a cavare dal buco.
Cosa c'è in gioco