Rubio offre la terza via fra la dinastia Bush e le urla populiste
New York. Mentre i commentatori politici sono ancora impegnati a decrittare ironicamente il significato dell’espressione “everyday american” nel linguaggio elettorale di Hillary Clinton, candidata che di “everyday” non ha nulla, e a determinare se stia davvero guidando verso l’Iowa, lei che immersa nella bolla dei protocolli di sicurezza non mette le mani sul volante dal 1996, nel campo repubblicano è precipitato il terzo candidato ufficiale, Marco Rubio. Ieri sera davanti ai fundraiser radunati a Miami il senatore della Florida ha spiegato perché è “uniquely qualified” per guadagnarsi la nomination repubblicana e andare a sfidare i democratici nel novembre del prossimo anno. Rubio si aggiunge ad altri due senatori che hanno già presentato la candidatura, Ted Cruz e Rand Paul, entrambi rappresentanti dell’area più estrema della destra repubblicana, sebbene interpretino l’appartenenza conservatrice secondo codici diversi. Cruz corrisponde all’antica immagine del conservatore intransigente e culturalmente affiliato al sud ma con credenziali accademiche dell’Ivy League; Paul è l’erede, anche di sangue, della grande tradizione libertaria americana, cultura di frontiera e anticentralista che contrappone radicalmente le libertà individuali all’autorità dello stato. Rubio rappresenta un altro tipo di conservatore, un ibrido fra la cultura antagonista del Tea Party e il mainstream del partito. Ma si tratta di un ibrido ancora non codificato, indecifrabile, e l’indeterminatezza ideologica coglie la grande questione da risolvere per tutti quelli che andranno a comporre il parco candidati repubblicano: l’effettiva distanza dall’establishment.
Il commentatore conservatore Erick Erickson dice che Rubio ha buone possibilità di vittoria perché è “il candidato originale del Tea Party”, l’uomo che per primo ha dimostrato che la corrente più attivista e “grassroots”, popolare e venata di retorica populista, poteva affrontare e sconfiggere i candidati espressi dalla struttura tradizionale del Gop. Nel 2010 ha ottenuto un seggio al Senato in Florida nonostante l’opposizione del partito, coagulando con fiuto tattico le pulsioni disordinate del Tea Party. L’arrivo a Washington ha inevitabilmente smussato gli angoli più acuti dell’ideologia rubiana, e la sua immagine non è stata sempre quella trionfante e sorridente del candidato che sa affascinare il suo pubblico, come sa chiunque ricordi la scellerata scelta di dare un poco presidenziale sorso da una bottiglia di plastica durante il “rebuttal” repubblicano del discorso sullo stato dell’Unione. Niente di politicamente grave, s’intende, ma l’immagine è rimasta scolpita nelle menti dell’elettorato, circolando per mesi sui social e finendo per essere inevitabilmente ripresa quando è circolata la notizia della corsa presidenziale. Il senatore in questi anni ha tentato di rimodellare la sua immagine: da politico di rottura a volto giovane e positivo di un partito che ha come obiettivo quello di restaurare il sogno americano, l’animatore della pars construens dopo la fase dell’antagonismo e dell’opposizione a tutto campo. Non a caso l’ultimo libro di Rubio s’intitola “American Dreams”.
[**Video_box_2**]Con i suoi 43 anni è il candidato più giovane fra quelli che si sono affacciati fin qui sul proscenio elettorale, e il dato anagrafico è il primo elemento che lo mette in contrasto con Jeb Bush, candidato ancora in fase esplorativa che per ragioni di età (62 anni) e di cognome è ancorato a un vecchio mondo politico, fatto di logiche codificate e dinastie politiche che si autoalimentano. In questo senso Rubio è un oppositore naturale alla potenza pervasiva della macchina elettorale dei Clinton. Le origini cubane ne hanno fatto una specie di Obama ispanico, elemento importante – qualche stratega dice addirittura decisivo – in una geografia elettorale in cui la costituency latina ha un ruolo sempre più rilevante e una naturale tendenza all’affiliazione con il Partito democratico. Offrire una ricetta politica appetibile per quell’elettorato è condizione necessaria, benché non sufficiente, per l’affermazione elettorale. Rubio lo sa così bene che ha deciso di arrivare alla rottura con gli ordini di scuderia del partito proprio sulla questione dell’immigrazione. Si è opposto agli ordini esecutivi con cui Obama ha aperto la porta alla naturalizzazione, sotto certe condizioni, degli immigrati clandestini, ma un anno prima dell’annuncio obamiano aveva scritto un disegno di legge bipartisan con diverse analogie e punti di contatto con le posizioni democratiche. Il testo è passato al Senato, allora a maggioranza democratica, ma è collassato alla Camera per la decisa opposizione dei repubblicani. Per paradosso le posizione morbida sull’immigrazione lo fa somigliare a Jeb, il quale però, per Rubio, non è che un patrizio bianco del New England che gioca a fare l’ispanico, mentre lui è la versione originale. Suo nonno per alcuni anni è stato un clandestino sul quale pendeva un ordine di espulsione.
Un fedele soldato conservatore
Su tutto il resto Rubio è un fedele soldato della causa conservatrice. Invoca un approccio aggressivo in politica estera, dicendo che gli Stati Uniti hanno il compito di “opporsi alla diffusione del totalitarismo”. Ha criticato la timidezza di Obama in Siria e in Ucraina, è a favore di un intervento militare contro le installazioni nucleari dell’Iran e si oppone a qualunque negoziato con i regimi, specialmente quello castrista che ha inflitto tante sofferenze al suo popolo; per lui il percorso di normalizzazione avviato da Obama, con tanto di stretta di mano con Raul Castro a Panama, non è la liberazione da un anacronismo ma una sciagurata concessione a un regime totalitario. In materia fiscale abbraccia le posizioni classiche del conservatorismo, con una particolare enfasi antiregolamentazione e un certo disprezzo per la macchina burocratico.amministrativa di Washington. Da cattolico di scuola non liberal, ha chiarito la sua opposizione ai matrimoni gay e si mette di traverso rispetto al consenso prevalente anche sui cambiamenti climatici. A differenza di altri, però, il senatore queste cose tende a dirle, non a urlarle.
I conservatori inglesi