Niente più straordinari
Jobs Act alla giapponese
Mentre i rumor sulla fallibilità dell’Abenomics continuano a circolare nei corridoi degli istituti finanziari, e Koichi Hamada, special advisor delle politiche economiche del primo ministro giapponese Shinzo Abe, dice a Bloomberg che “lo yen si è indebolito abbastanza e la Banca del Giappone non deve forzare l'inflazione al suo obiettivo del 2 per cento” (qui tutta l’intervista), beh, Abe ha vinto anche l’ultimo referendum sulla sua politica – e non solo monetaria. La coalizione del Partito liberal democratico più l’alleato di governo, il partito Komeito, guidata dal primo ministro di Tokyo, nel primo turno delle elezioni locali di domenica scorsa ha vinto tutte e dieci le poltrone da governatore in gioco. Dall’ultimo mese il livello di approvazione del governo di Shinzo Abe in Giappone è salito del 5 per cento ed è oggi al 51 per cento, secondo un sondaggio della Nhk.
Il primo portavoce del governo di Tokyo, Yoshihide Suga, durante la conferenza stampa di ieri, ha detto che per l’ottimo risultato alle amministrative è stata fondamentale la posizione del governo sulle politiche del lavoro. E’ il lavoro, infatti, una delle riforme fondamentali della terza freccia dell’Abenomics. E all’inizio del mese un piccolo passo verso un cambiamento – che è anzitutto culturale – è stato fatto, ma non senza polemiche. Il governo ha presentato alla Dieta un emendamento alla Legge sul Lavoro (qui il testo completo) che dovrebbe permettere alle imprese di pagare i dipendenti a seconda del lavoro svolto (rendimento) e non, come succede ora, in base alle ore di lavoro. La riforma, come spiega il Japan Times, colpirà “lavoratori qualificati che hanno uno stipendio annuo di 10.750 mila di yen (84 mila euro) o più”, meno del 4 per cento della forza lavoro giapponese. In pratica un Jobs act ad hoc per i colletti bianchi giapponesi, che non sarà una delle rivoluzioni culturali più permeanti per il tradizionalissimo Giappone ma di sicuro aggredisce un piccolo pezzo del paese legato come una zavorra a un sistema passatista.
Se dovesse passare la legge, le aziende non dovranno più pagare gli straordinari, che per l’opposizione di governo significha continuare a far lavorare gli impiegati giapponesi per le stesse ore, ma senza essere retribuiti. Per Abe invece, un ambiente dinamico e senza pressioni di orari significherà velocizzazione del lavoro, promuovere e aiutare le famiglie. Finora la regola culturale è stata questa: più sei fedele, più guadagni. Un tradizionale rapporto di lavoro che somiglia a quello che si instaurava tra shogun e samurai, di certo non più efficace per il libero mercato moderno. E il premier Abe lo sa. Cosa cambierà l’ha raccontato sul Financial Times di qualche giorno fa David Pilling. Se le cose stanno cambiando, c’è bisogno di portare le donne a lavorare, e diminuire i carichi di lavoro, un provvedimento che aumenterebbe la produttività e farebbe bene all’economia. Spiega Pilling che la retribuzione di anzianità, per cui gli stipendi aumentano a seconda degli anni di servizio, ha avuto in Giappone delle conseguenze impreviste: “Molte corporation hanno smesso di assumere non appena i tempi si sono fatti difficili, raddoppiando il lavoro di contratti temporanei: “La maggior parte dei cambiamenti devono avvenire a livello aziendale. Il governo non può fare più di tanto. Però si può portare avanti una legge che porti le condizioni di chi ha un lavoro temporaneo più vicine a quelle degli occupati a tempo pieno. Il Giappone ha urgente bisogno di creare un ambiente di lavoro flessibile, fantasioso e, in definitiva, più produttivo”.
Eppure il problema dei colletti bianchi non è solo economico. In Giappone il fenomeno dei karoshi – i morti per troppo lavoro – è riconosciuto dal ministero del Lavoro sin dal 1987. All’interno della riforma di Abe c’è anche un articolo che obbliga i dipendenti a utilizzare almeno 5 giorni di ferie pagate all’anno – ed è una pratica diffusa, infatti, quella dei giapponesi dipendenti sempre presenti a lavoro: si dice che sia l’etica del lavoro nipponico, per cui nessuno permetterebbe di caricare un collega anche del proprio lavoro. Sottovoce, poi, alcuni rampanti businessmen parlano di una concorrenza talmente spietata, e iniziata negli anni ruggenti del Giappone del dopoguerra, che oggi è connaturata in ogni bravo dipendente: esserci significa esistere. L’impiegato dunque dedica la sua vita all’azienda, e non è solo una questione di professionalità: è una questione di onorabilità. Oltre le sessanta ore settimanali di lavoro (una media del 2013 del ministero dell’Interno), i salarymen si sottopongono spesso alle notorie sedute di “socializzazione” attraverso l’alcol con i colleghi. Un problema sociale molto serio, che si fonde con la solitudine, l’emotività e con il significato più intimo dell’essere giapponese oggi.
Dalle piazze ai palazzi