Leve svantaggiose
Sull'Iran Obama è forte con i repubblicani e debole con tutti gli altri
New York. Dopo settimane di negoziati per determinare il ruolo nel Congresso dell’accordo nucleare con l’Iran, fin qui gestito da Barack Obama con i muscoli del potere esecutivo, ieri la commissione Esteri del Senato ha trovato un accordo bipartisan di massima, che Obama si è detto disposto a controfirmare. Il repubblicano Bob Corker e il democratico Benjamin Cardin, i titolari della trattativa, hanno raggiunto un compromesso accorciando il periodo che il Congresso avrà a disposizione per rivedere l’eventuale accordo, da stipulare entro fine giugno. I repubblicani ragionavano su un periodo di 60 giorni, troppo lungo per i democratici, che assecondano la volontà di Obama di non mettere a repentaglio il deal e di mostrarsi dialoganti con gli ayatollah.
Il secondo aspetto che è stato mitigato è il collegamento fra la fine delle sanzioni e i finanziamenti dell’Iran al terrorismo. I falchi hanno tentato all’ultimo di introdurre un dispositivo che avrebbe impedito agli Stati Uniti di revocare le sanzioni senza la prova certa che Teheran avesse smesso di sponsorizzare organizzazioni terroristiche. Poco dopo aver ufficializzato la sua corsa alla presidenza, il senatore Marco Rubio è tornato a Washington per introdurre nel testo una condizione che è nel novero delle richieste impossibili: garantire all’Iran il sollievo dalle sanzioni solo se riconoscerà la legittimità e il carattere ebraico di Israele. E’ un modo per dire che nessun accordo è meglio di un pessimo accordo, ed è tutto troppo audace per la mano tesa di Obama, che ha passato il pomeriggio di lunedì a tentare di convincere i leader della comunità ebraica americana che l’accordo è sostenibile, e il Congresso falco e filoisraeliano veglierà.
Alcuni di loro hanno ricordato al presidente che togliere le sanzioni permetterà agli ayatollah di ricavare 100 miliardi di dollari da reinvestire immediatamente nell’ampio mercato del terrore gestito da Teheran. Paradossalmente, i democratici in questo caso avevano un certo interesse tattico nel promuovere l’inclusione di emendamenti e condizioni chiaramente impossibili da realizzare nella pratica: il presidente può sempre mettere il veto, e bloccare una proposta irricevibile per gli standard della diplomazia è più facile che aggirare un disegno di legge moderato con cui il Congresso rivendica il suo legittimo ruolo di controllore. Obama in una mano ha il potere di veto, nell’altra ha un compromesso con il Congresso che non fa saltare il tavolo con l’Iran, un ottimo modo per negoziare da una posizione di forza. La cosa gli riesce bene quando l’interlocutore è il Congresso, un po’ meno quando parla con gli avversari esterni. Quella di Capitol Hill è soltanto una delle partite che si giocano attorno all’accordo iraniano. Un’altra, cruciale, si gioca a Mosca.
[**Video_box_2**]Il Cremlino ha confermato ieri uno scambio fra petrolio e beni alimentari con Teheran, ulteriore passo dopo che lunedì Vladimir Putin ha dichiarato la fine dell’autoimposto congelamento degli affari. Ora che il pre-accordo fra Obama e gli ayatollah è sul tavolo e il disgelo è alle porte – almeno questo lascia intendere Washington, mentre a Teheran festeggiano la capitolazione del Grande Satana – la Russia sente di potere legittimamente far pagare all’America e all’Europa le sanzioni imposte per l’invasione dell’Ucraina con la moneta peggiore, quella dell’alleanza rinsaldata con l’Iran. “A questo punto siamo convinti che non c’è più bisogno di imporci un divieto”, ha detto il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, mentre veniva annunciata la fornitura di un nuovo sistema missilistico antiaereo, manovra eufemisticamente bollata come “non costruttiva” dalla portavoce del dipartimento di stato. Gli S-300 sono i missili che rendono più difficoltoso, se non inefficace, uno strike aereo alle centrali nucleari nel caso l’Iran non rispetti i termini del pre-accordo. La fornitura di missili indebolisce quello che rimane della deterrenza americana e la fornitura di cibo allenta la pressione delle sanzioni. Nel frattempo il Congresso, sotto la minaccia del veto, si trova a indebolire la linea di difesa dalle libere iniziative di un presidente che tende la mano ai nemici dell’America mentre la morde gli avversari repubblicani.