Quanto contano i meloni nella quiete apparente di Teheran
Roma. “Leggere Khamenei non è facile”, ha detto Barack Obama in un’intervista al New York Times, pochi giorni dopo l’accordo preliminare di Losanna sul nucleare iraniano. Leggere Ali Khamenei, Guida suprema della Repubblica Islamica d’Iran, è un’impresa complicata, ma il capo della Cia, John Brennan, è convinto di esserci riuscito. Lo ha raccontato alla Kennedy School of Government di Harvard: Khamenei ha capito che l’economia rischiava di colare a picco e questo lo ha persuaso a trattare sul nucleare. Insomma, anche a Teheran “it’s the economy stupid”.
L’austero leader supremo ha dato fiducia a un presidente che sull’economia ha puntato tutto e poi (forse) ha mangiato la foglia, perché, dopo le delusioni che gli ha riservato Mahmoud Ahmadinejad, che si vantava di avere come consigliere economico il macellaio di fiducia, non è più sicuro che Ruhollah Khomeini avesse ragione quando ripeteva piccato: “Non abbiamo fatto una rivoluzione per abbassare il prezzo dei meloni!”. I meloni, invece, contano eccome, dopo anni di sanzioni il popolo non vive di solo spirito e, per quanto sia efficiente l’apparato della repressione, non puoi azzerare la fame e neppure i desideri.
Per l’Economist anche Khamenei si è rassegnato al capitalismo, cita una conversazione con un alto funzionario: “Mio figlio si è candidato come capoclasse – dice Khamenei – è un ragazzo in gamba, amato dai compagni, con una bella parlantina, eppure ha perso. Gli ho chiesto su cosa avesse puntato. Mi ha risposto: giustizia e dignità. E il tuo rivale? Lui ha promesso alla classe pasti migliori e una ricreazione più lunga”. Puoi chiudere le frontiere al capitalismo globale – sembra suggerire l’ Economist – ma non al capitalista che è dentro di te. Allora tanto vale provare a governarlo.
“E’ un momento pazzesco, stiamo facendo la storia”, racconta al Foglio Ramin Rabii da Teheran. “Quando l’accordo sarà definitivo, centinaia di milioni di dollari confluiranno verso l’economia iraniana”. Rabii è l’amministratore delegato di Turquoise Partners, una società di investimenti e brokeraggio fondata nel 2005 che detiene il 90 per cento del portafoglio di investimenti stranieri in Iran. In pochi mesi ha ricevuto 65 delegazioni e, nell’ultima settimana, almeno 50 email al giorno da parte di soggetti interessati a un solo prodotto finanziario. “Aspettavamo questo momento da dieci anni”. Turquoise Partners ha appena siglato un’intesa con Charlemagne Capital, un gruppo inglese specializzato in mercati emergenti: le due società prevedono di lanciare un fondo da 70 milioni di dollari (arriverebbe in breve a 200 milioni di dollari) dedicato al mercato iraniano. Rabii prevede che i primi effetti del deal sull’economia saranno visibili in una finestra temporale che va da 6 a 9 mesi, ma le ripercussioni sulla Borsa il 1° luglio saranno immediate. Il suo ottimismo è determinato dalla convinzione che il regime “non abbia scelta: deve liberalizzare e privatizzare”.
Il documento di programmazione ventennale 2005-2025 in cui il regime delinea i suoi obiettivi economici recita che la Repubblica islamica si prefigge di diventare “una potenza economica e tecnologica” per occupare il posto che le spetta nella regione, ma le strategie per passare dalla teoria allo sviluppo cambiano a seconda dell’interlocutore. Dal 1979 il regime si è affannato a trovare un modello economico “islamico” che potesse coniugare giustizia sociale, crescita e valori religiosi. Ne è risultato un pot pourri inefficiente, burocratizzato e corrotto, un sistema che è rimasto schiavo delle entrate petrolifere. Rabii non dissente da questa analisi, né nega le incognite legate al peso delle fondazioni religiose e delle corporation dei pasdaran, ma sottolinea anche che molti dei guasti sono accomunabili a quelli di altri mercati di frontiera e che non saranno queste pecche a tenere lontani gli investitori. Ma quale Iran si troveranno di fronte i businessman che corteggiano Rabii?
Nel decennio della ricostruzione post-bellica, gli anni di Ali Hashemi Rafsanjani e del dialogo critico sponsorizzato dalla Germania (ma anche gli anni dell’affaire Rushdie e degli omicidi a catena di intellettuali iraniani), il dibattito tra gli insider verteva soprattutto sui meriti dell’esempio giapponese. Ma è stato il modello cinese a catturare più di ogni altro l’interesse dei dirigenti iraniani. Teheran e Pechino sono accomunate dal fatto di essere figlie di due rivoluzioni, entrambe hanno sperimentato lo scarto tra l’ideologia e la realtà, ma mentre la Repubblica popolare cinese ha abbandonato i principi economici del ’49, l’Iran fatica a scrollarsi di dosso le vestigia del suo ’79. Per i più conservatori la soluzione cinese contempla un impulso all’iniziativa privata sorvegliato dalla mano forte dello stato, i pragmatici, invece, guardano a Pechino attratti dall’idea di un quasi libero mercato. I primi sognano la Cina per la sua capacità di produrre crescita economica senza cedimenti alla democrazia, i secondi plaudono alla disinvoltura con cui Pechino ha accantonato il suo armamentario rivoluzionario.
Quale che sia la ricetta che prevarrà a Teheran, sempre che le fazioni rivali del regime riescano a produrne una, Rabii è persuaso che l’elezione di Hassan Rohani sia la prova di un cambio di passo. Per quanti considerano la Repubblica islamica un soggetto che risponde solo a pulsioni ideologiche, lo scenario prefigurato dall’amministratore delegato di Turquoise Partners è fantascientifico, ma lui obietta: “Si fermano agli slogan che continueranno a essere scanditi e non conoscono la realtà della società iraniana”. Per Rabii l’isolamento dell’Iran è stato deleterio e non c’è ipotesi migliore per il futuro del paese “di un McDonald’s in ogni quartiere”. C’è una nuova generazione di giocatori pronti a entrare in scena – sostiene – e si riferisce non solo alla gioventù iraniana affamata di consumi, ma anche a una nuova leva di politici e amministratori figli del “baby boom” di Khomeini. “Sono in contatto con molti funzionari, sono più religiosi di me, ma sull’Iran la loro visione non è dissimile alla mia: vogliamo uno stato prospero, moderno e connesso alla comunità internazionale”.
[**Video_box_2**]Mehrdad Emadi, analista della società di consulenze Betamatrix International Consultancy, sposa la teoria di Brennan sul fatto che Rohani abbia convinto Khamenei ad accettare la trattativa sul nucleare e che la molla sia stata economica. Al Foglio conferma che ci sono trattative prelimari già in corso tra l’Iran e alcuni investitori occidentali nel settore petrolifero e in quello automobilistico. Stima che “l’economia iraniana potrebbe crescere rapidamente del 2 per cento e arrivare fino al 5 per cento nel primo anno dopo l’accordo. La tendenza potrebbe accelerare fino al 7-8 per cento nei successivi 18 mesi, la stessa crescita delle ‘tigri asiatiche’ negli anni del boom, mentre l’interscambio commerciale con l’Ue, che ha raggiunto 7,6 miliardi di euro l’anno scorso, potrebbe schizzare a 400 entro la metà del 2018”. Messi da parte i dati economici, Emadi non è persuaso che l’ottimismo in economia sarà foriero di cambiamenti in ambito sociale. “Forse sul lungo periodo, forse tra dieci anni, non credo prima a giudicare dalla determinazione dell’apparato di sicurezza”. E’ opinione radicata di molti protagonisti che, messi davanti alla scelta tra sicurezza e libertà, gli iraniani baratteranno la seconda per la prima. Forse sottovalutano gli iraniani, ma è la scommessa che vuole vincere Rohani, sempre che Khamenei glielo lo consenta.