La verità in maschera sul genocidio armeno rivelata da una turca
Roma. Il giorno in cui in tutto il mondo è stato ricordato il centenario del genocidio degli armeni nell’Impero ottomano, il presidente turco Erdogan ha indirizzato un messaggio di condoglianze al Patriarcato armeno di Istanbul, in occasione della cerimonia religiosa in suffragio del milione e mezzo di vittime della pulizia etnico-religiosa del 1915. Nel messaggio, Erdogan non si è peritato di citare la cerimonia di disturbo organizzata da Ankara per commemorare la battaglia di Gallipoli del 1915, iniziativa che ha fatto infuriare l’Armenia per l’evidente volontà di sovrapporsi alla celebrazione del genocidio. Scrive Erdogan: “Oggi siamo in grado di ospitare con entusiasmo a Çanakkale i nipoti di coloro che arrivarono da tutto il mondo un secolo fa per invadere la nostra patria comune, al fine di condannare la guerra e promuovere la pace e l’amicizia”.
Oltre al danno, la beffa. Una beffa che offende anche quegli vasti settori di società turca che in questi ultimi anni hanno deciso di interrogarsi sulla “questione armene”, e che in modo sempre più disinibito mostrano di voler fare i conti con un passato violentemente cancellato. Il “consenso obbligatorio” che ancora una decina di anni fa, come scriveva ieri il Monde, imponeva alla società turca il silenzio su quella questione, si è trasformato sempre più in un bisogno di parlarne, di sapere. Ma i passi del governo continuano ad andare in direzione opposta. Due giorni fa, la Turchia aveva richiamato l’ambasciatore a Vienna, dopo il voto con cui il Parlamento austriaco ha riconosciuto il genocidio armeno (ieri si è aggiunto, sulla stessa linea, anche il pronunciamento del Bundestag tedesco). E quanto al senso che i governanti turchi danno all’espressione “patria comune”, contenuta nel messaggio di Erdogan, è molto utile leggere la testimonianza della scrittrice turca Pinar Selek nel libro autobiografico intitolato “La maschera della verità” (Fandango). Nata nel 1971 in una famiglia di Istanbul laica e di sinistra, Pinar Selek non ha mai sentito parlare di armeni. Fino a quando qualcuno, in famiglia, chiama una vicina di casa “madame” Talin, e non “hanim”, come le donne musulmane. La madre spiega a Pinar che “madame” è riservato alle greche e alle armene. Più tardi, madame Talin le confesserà di essere “il resto della spada”: espressione terribile per indicare i sopravvissuti armeni al massacro in Anatolia. Lei si è salvata perché riuscì ad arrivare con i pochi sopravvissuti della sua famiglia a Istanbul, la grande città dove era possibile nascondersi e diventare invisibili.
Il prezzo per i salvati è l’autocancellazione. Nella classe della scuola privata dove Pinar studia, le più silenziose sono quattro ragazze di origine armena. Anche a loro tocca imparare a memoria che “il diavolo chiamato ‘armeno’ era l’eterno nemico del turco”. L’adolescente Pinar un po’ le disprezza, le considera “fifone”. Lei, che viene da una famiglia di militanti politici (suo padre fu arrestato come oppositore nel 1980, dopo il colpo di stato del 12 settembre guidato dal generale Kenan Evren), non può fare a meno di chiedersi perché quelle “nostre compagne mute”, che stanno sempre tra di loro e non si divertono mai a fare cose un po’ proibite, come l’autostop furi dalla scuola, non reagiscano nemmeno agli insulti più terribili.
Quando Pinar Selek comincia a farsi troppe domande, si trova trasformata in terrorista. Nel luglio del 1998 viene arrestata: aver fatto interviste all’estero sulla questione curda le guadagna l’accusa di complicità con il Pkk e la tortura con scariche elettriche, allo scopo di farle confessare complicità inesistenti in un attentato inventato. Assolta tre volte, dal 2009 vive in esilio, perché in Turchia continua a essere sotto processo. Nei due anni e mezzo della sua prigionia, ha ricevuto quasi quotidianamente lettere firmate “un caro vecchio amico”. Le parlano di Gesù Cristo, la invitano alla pazienza e alla fiducia. Una volta fuori dalla galera, conoscerà l’uomo che le ha scritte: un ottantenne sagrestano armeno, solo al mondo, che vive nella chiesa dei Tre-Altari nel quartiere di Galatasaray. Anche grazie a lui, impara che essere armeni in Turchia “voleva dire passeggiare senza ribellarsi sui viali battezzati coi nomi dei governanti responsabili del genocidio. Pronunciare il nome dell’assassino del proprio nonno o della propria nonna facendo finta di scambiarsi un indirizzo”.
[**Video_box_2**]Poco dopo essere uscita di prigione, conosce Hrant Dink: un armeno che non si nasconde, fondatore di un giornale bilingue turco-armeno, Agos, che per primo sconvolge “un sistema pietrificato. La sua linea politica, audace e inedita, suscita molto interesse”. Agos lancia la grande questione: dove sono gli armeni? E dove sono finiti gli armeni rimasti in Turchia? Sono gli anni dopo il 2000, quando gli armeni islamizzati trovano sempre più il coraggio di uscire allo scoperto. Numerosi turchi e curdi apprendono dai genitori di essere di origine armena, altri trovano il coraggio di raccontare che i loro nonni erano armeni. Dopo anni di intimidazioni e minacce, Dink fu assassinato il 19 gennaio del 2007 da un nazionalista turco diciassettenne (solo nel febbraio di quest’anno, nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio, è stato arrestato l’ex comandante dell’intelligence della polizia, Ramazon Akyurek). Ma in Turchia, scrive Pinar Selek, “i viali portano ancora i nomi dei responsabili del genocidio. Dovremmo ribattezzarli Hrant Dink”.