Bibi bombarda Assad
Nel giro dell’ultima settimana in Siria il capo della polizia segreta è morto ammazzato di botte dagli uomini dell’intelligence militare, gli aerei israeliani hanno colpito in segreto alcune basi missilistiche del governo sulle montagne al confine con il Libano, un nuovo gruppo che raccoglie sotto la sua bandiera le fazioni islamiste più grandi del nord – in diverse gradazioni di talebanesimo – e si fa chiamare l’Esercito della Conquista ha sconfitto le truppe di Assad e ha preso la seconda città in un mese, dopo uno stallo che durava da tre anni, e adesso minaccia di accerchiare una grande quantità di soldati. Tutto questo getta nello sconforto la base popolare perlopiù di fede alawita che ancora crede nella Siria com’era prima del 2011 ma si sente tradita dall’establishment e dal presidente Bashar el Assad. Anche Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Iran c’entrano in questa situazione. Nel frattempo e come conseguenza di questi fatti il valore della moneta siriana sta crollando ed è significativo perché funziona come l’indice di fiducia sulla tenuta del governo. E’ una nuova fase, in Siria e tutto attorno, ed è necessario mettere ordine.
Gli aerei israeliani bombardano la Siria, lo hanno fatto quattro volte negli ultimi cinque giorni (e molte altre volte prima). In tre casi hanno colpito postazioni dell’esercito di Assad e del Partito di Dio libanese, in particolare le divisioni 155 e 65, che si occupano di “armi strategiche” – come i missili a lungo raggio o le batterie di missili antiaereo – sul Qalamoun, il grande contrafforte roccioso che affaccia sul Libano e non è distante dalla capitale Damasco. Nel quarto caso un aereo israeliano si è levato in volo e ha ucciso quattro uomini che stavano avvicinandosi al confine sulle alture spoglie del Golan, quindi da un’altra parte, nel sud della Siria. “Le truppe hanno osservato una squadra di terroristi in avvicinamento armati con dell’esplosivo che avrebbero usato contro di loro, il bombardamento ha prevenuto l’attacco”, dice il comunicato dell’esercito. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lodato l’operazione su Twitter: “Qualsiasi tentativo di fare del male ai nostri soldati e civili incontrerà una risposta determinata come l’azione militare che ha sventato un attacco terrorista questa notte”.
Israele si sta tenendo fuori dal conflitto della porta accanto e colpisce però quando vede che la Siria trasferisce verso il Partito di Dio armi sofisticate che altrimenti sarebbero usate nella prossima guerra (l’ultima è stata nel 2006, tutti si aspettano che ci sarà un nuovo round). Benjamin Netanyahu non si fida di Bashar el Assad e non ha la “Tentazione assadista”, che è la tentazione che convince una folta schiera in occidente. Quelli della Tentazione vedono il rais siriano come un potenziale partner nella lotta al terrorismo e anche come “un difensore delle minoranze” – anche se poi aggiungono, per mostrare sensibilità, che Assad è “unpalatable”, poco gradito, come fosse una pietanza troppo salata. Un quotidiano italiano propose Assad come “uomo dell’anno contro i terroristi islamici”. La Tunisia colpita dal terrorismo ha riaperto il consolato a Damasco chiuso nel 2012. Gerusalemme deve essere immune a questa posa e bombarda Assad a intervalli regolari.
Bombardamenti non dichiarati. Il comunicato israeliano non specifica chi fossero i quattro uomini uccisi la notte di due giorni fa sul Golan: appartenevano ai gruppi armati che fanno la guerra al presidente Bashar el Assad o erano invece lealisti? L’Osservatorio per i diritti umani in Siria (che è una fonte molto citata sui fatti di quel paese, ma di cui davvero non si garantisce l’attendibilità al 100 per cento) scrive che erano quattro soldati siriani. Potrebbe essere vicino al vero: per ora l’unico caso di attacco contro israeliani in quella zona è arrivato dal Partito di Dio, che si muove lungo il confine grazie a un accordo con il presidente Assad. Israele tace a proposito degli altri tre bombardamenti contro le basi missilistiche, come fa per scelta diplomatica da quando ha cominciato a colpire la Siria nel febbraio 2013. La notizia arriva da Associated Press e dai canali tv arabi al Jazeera e al Arabiya. Ieri mattina una “fonte anonima dell’establishment della Difesa israeliana” ha negato uno dei quattro bombardamenti – ma non gli altri tre.
La decisione del presidente israeliano Netanyahu di bombardare la Siria sottolinea ancora una volta una distinzione chiave, ma poco pubblicizzata, fatta dall’esecutivo di Israele: Assad il siriano non è una versione strong dell’egiziano Abdel Fattah al Sisi, un presidente arabo apprezzato in occidente per la sua linea dura contro gli islamisti (e che ha precedenti controversi assai in materia di diritti umani). O viceversa, Sisi non è un “Assad light”, un Assad senza però gli orrori chimici. Sisi ha lanciato una campagna durissima contro gli islamisti di casa e contro quelli di Gaza e oggettivamente sta cooperando con Israele, che dichiara di essere soddisfatto dei rapporti con il Cairo. Assad coopera attivamente e a tempo pieno con i nemici di Israele, il Partito di Dio e l’Iran. Questa differenza laggiù nel Levante è considerata strategica, e tende invece a sbiadire da noi in Italia, dove la questione mediorientale non viene messa a fuoco come meriterebbe.
[**Video_box_2**]A Damasco il capo della polizia segreta, il generale Rustom Ghazaleh, è morto venerdì dopo essere stato picchiato da uomini dell’intelligence militare, per ordine del loro capo, il generale Rafiq Shehadeh. Entrambi sono stati poi sollevati dai loro incarichi. Il pestaggio è avvenuto tra febbraio e marzo, Ghazaleh ha passato settimane in ospedale, in stato vegetativo, mentre all’esterno circolavano versioni diverse su di lui – compresa quella dei fan sfegatati di Assad che distribuivano su internet foto di lui sorridente e normalmente al lavoro in mimetica nel suo ufficio. Ghazaleh gestiva un traffico di carburante clandestino. Oppure stava per pubblicare con un autore in Libano un libro di memorie incredibilmente imbarazzante per il regime. O anche era un testimone importantissimo nell’inchiesta internazionale per la morte del presidente libanese Rafiq Hariri, ucciso da un’autobomba nel febbraio 2005 (ci sono sospetti pesantissimi sull’intelligence siriana). “E’ giallo”, direbbero i siti pigri di news. La notizia della morte di Ghazaleh non doveva diventare pubblica, e il regime non la sta confermando, ma è arrivata da al Mayadeen, che è una televisione libanese particolarmente vicina agli assadisti. Sembra anche che Ghazaleh si fosse opposto alla gestione della guerra in Siria da parte dell’Iran (il governo di Teheran ha preso dall’anno scorso il comando quasi completo delle operazioni militari). A febbraio è uscito un video che mostra la villa di Ghazaleh nel sud della Siria in fiamme, e non erano stati i gruppi armati islamisti ad appiccare il fuoco. Un articolo uscito sabato sul New York Times sostiene che la sua morte è il segno delle crepe che si stanno aprendo nella struttura del potere di Assad. A luglio erano circolate storie non confermate su un paio di litigi furibondi del generale con i libanesi di Hezbollah. Ghazaleh era arrivato a questo incarico nel luglio 2012, subito dopo che metà del consiglio di guerra di Assad era stato spazzato via da un attentato misterioso in uno dei palazzi del potere della capitale. Secondo una ricostruzione fatta dal Wall Street Journal l’anno scorso, la bomba fu piazzata dal regime per eliminare chi era favorevole ad aprire una linea di negoziati con la rivoluzione (allora era ancora credibile come tale, e non era ancora un jihad) e rifiutava la linea dettata dall’Iran, di ostilità totale e guerra senza quartiere. nel 2015 come nel 2012, schierarsi contro la gestione iraniana della guerra in Siria può avere conseguenze letali.
I rumors sul colpo di stato. Questo mese, a Latakia, città sulla costa e capitale dei sostenitori del presidente, è stato arrestato Munzer al Assad, cugino di Bashar, con l’accusa di complottare un colpo di stato – quest’ultima informazione non è confermata, ma rende l’idea del clima che si respira. Il potere assadista sembrava un monolite, compatto e senza punti deboli, ma sta cedendo sotto la pressione troppo intensa che la guerra civile esercita ormai da quattro anni: i nemici sunniti sono tanti, gli alawiti sono pochi, cominciano a mancare i numeri per controllare il territorio, i giovani fuggono in ogni modo la leva obbligatoria e la polizia che dà la caccia ai fuggitivi nelle case e nelle università non fa la stessa paura di certe battaglie ravvicinate contro gli islamisti assortiti al nord.
Fonte MacRoarch
L’Esercito della Conquista. I gruppi armati siriani a nord si sono uniti in un supergruppo che si chiama Jaish al Fath, “l’Esercito della Conquista”. E’ la grande novità del 2015, s’ispira alle conquiste islamiche nel settimo secolo dopo Cristo e ci si deve fare i conti. Il Jaish al Fath in meno di un mese ha conquistato Idlib e Jisr al Shughour, città che non erano mai uscite dal controllo del governo in tutti questi anni. Ne fanno parte Ahrar al Sham, che è un gruppo islamista che si pone come unico traguardo la fine di Assad ed è miracolosamente risorto dopo che a settembre scorso un attentato ne aveva spazzato via tutta la leadership in un colpo solo, e Jabhat al Nusra, che è il fronte di al Qaida in Siria e celebra su Twitter i successi “dei fratelli talebani in Afghanistan”. Ne fanno parte anche altri gruppi, e ci sono molti foreign fighters arabi, europei e caucasici che negli scorsi decisero di non unirsi allo Stato islamico perché non gli piaceva la proposta del Califfato da parte di Abu Bakr al Baghdadi.
Dove sono i decapitati? L’esercito della Conquista muove migliaia di uomini e appare bene organizzato, a giudicare dalla propaganda che mette su internet. Colonne di uomini bene equipaggiati, preghiere, prigionieri vivi. Sta ottenendo vittorie militari significative senza copertura aerea, con meno artiglieria del nemico e senza poter usare le retrovie in Turchia, perché Ankara ha sigillato completamente il confine e non lo riaprirà fino a dopo il voto di giugno. Eppure la joint venture islamista ha preso prima Idlib e poi Jisr al Shugour, e quest’ultima è una cittadina che controlla l’autostrada M4 che porta verso Latakia, sulla costa, nel cuore della terra di Assad. Con quest’ultima vittoria, il Jaish al Fath ha creato una enorme sacca di soldati del governo isolati dal resto del paese e a rischio di essere catturati o uccisi. Se accadesse, è facile immaginare come reagirebbe la base alawita che già sta protestando contro Assad. Per ora il governo ha reagito alla perdita di territorio come al solito: con una campagna di bombardamenti convenzionali e con bombe al cloro che ormai non scandalizzano nessuno. In teoria questo tipo di rappresaglia rozza – scorie tossiche mescolate a esplosivo – dovrebbe rassicurare i siriani nelle zone governative che il comando è pronto a fare qualsiasi cosa contro i “ratti”, come sono chiamati i combattenti dei gruppi armati. Può essere. L’effetto politico è che i ratti sono sempre più rabbiosi e meno disposti a un qualsiasi compromesso con quei “cani” di assadisti (nota: cane è ancora un insulto pesante là).
Chiunque sia dietro alla campagna del Jaish al Fath non vuole spaventare il pubblico. Non si sono viste per ora pubbliche esecuzioni, decapitazioni o distruzioni di tombe come nei video dello Stato islamico. L’impressione è che nella sala dei bottoni ci sia un cervello capace di imporre una disciplina unitaria ai mujaheddin. Una delle voci più ricorrenti è che Arabia Saudita e Qatar, due sponsor di alcuni gruppi armati siriani che negli anni scorsi si comportavano come rivali – con effetti disastrosi sul campo – abbiano deciso di comportarsi come uno sponsor singolo, con la collaborazione della Turchia. L’aiuto esterno non arriverebbe a tutti i gruppi del Jaish al Fath, ma soltanto ad alcuni. Possibilità pratica di verificare queste voci: vicine allo zero, per ora.
C’è anche la Forza Tigre. All’Esercito della Conquista, gli assadisti oppongono la cosiddetta Forza Tigre, un gruppo di irriducibili del governo comandati dal colonnello Suhail al Hassan, detto appunto il comandante Tigre, che tra gli alawiti riscuote molto più successo del presidente Assad, che invece va più forte tra i sunniti governativi. In questo momento però il Tigre e i suoi sono semi-intrappolati quasi da tutti i lati. Erano stati mandati lì a sud di Idlib per riprendere la città caduta a fine marzo e invece ora c’è il pericolo di un accerchiamento inglorioso. Ratti contro cani, Esercito della Conquista contro Forza Tigre. In una battaglia ormai fuori tempo massimo, i due fronti tentano di inscenare una nuova ripartenza sulle macerie materiali e umane della Siria. Direzione ignota, e come dato iniziale c’è che – come scrive un’analisi informata del Washington Post – il controllo della famiglia Assad sul paese non è mai stato così debole.