Ed Miliband visto da vicino combatte con la sua caricatura
“Tutti hanno un piano, finché non ti arriva un pugno in bocca”.
Michael Tyson
Ed Miliband è un “nice guy”. Tutti quelli che a Londra hanno a che fare con il Labour ci tengono a sottolineare che il loro leader non è un mostro cinico, ambizioso e anaffettivo: sono gli altri che lo disegnano così. Lo spin conservatore, a una settimana dal voto del 7 maggio, è in effetti fortissimo, sui media la campagna elettorale pare uno scontro di civiltà, il nemico è sempre rappresentato come una persona non solo incapace di fare il suo lavoro, ma soprattutto brutale, e i fotomontaggi con guantoni e ring ormai si sprecano. Se non fosse che i commentatori si lamentano di continuo – “che noia”, “non vedo l’ora che finisca”, “non arriviamo svegli al giorno del voto” sono le frasi che tutti, di destra e di sinistra, ripetono senza sosta, mentre circola con insistenza una foto che ritrae il premier David Cameron che parla con a fianco una bambina con la testa crollata sul banco – si potrebbe pensare che siamo prossimi alla fase splatter, in cui vale tutto, altro che fair play britannico.
Il problema però è che nel Regno Unito c’è poca dimestichezza con lo scenario politico attuale, in cui i due grandi partiti raggiungono insieme circa il 70 per cento dei voti e nel restante 30 per cento ci sono astri nascenti, vecchie volpi, promesse non mantenute, molta confusione e alleanze decisive. “Voi italiani sapete orientarvi meglio in questo contesto”, dice sorridendo Chris Hanretty, che gestisce il sito Electionforecast.co.uk e mi viene presentato come “il Nate Silver inglese”, quello che prende i dati, li riorganizza in modelli statistici e azzecca le previsioni. Hanretty ride quando gli ripeto la definizione, dice che sono almeno tre i Nate Silver di Electionforecast, lui e i suoi colleghi, ma due giorni fa l’endorsement di Silver, il principe degli statistici americani, è diventato ufficiale: “Penso che @Election4castUK sia fatto molto bene, ecco perché abbiamo deciso di fare una partnership, ma il merito del modello è tutto loro”. Quando Hanretty fa riferimento alla frammentazione politica italiana sa di cosa parla: nel 2013 aveva provato ad applicare il suo modello di rielaborazione statistica dei dati alle nostre elezioni, ma prevedere il voto al Senato, tra rilevazioni locali scarse e di parte e tanti partiti, era stato impossibile. Il Regno Unito ha dati più organizzabili, “il nostro modello combina i numeri di YouGov con tutti i sondaggi nazionali e locali, i risultati storici e i dati dell’Uk Census”, spiega Hanretty, ma il risultato è sempre lo stesso: l’8 maggio, se i sondaggi non stanno sbagliando tutto, ci sarà un “hung Parliament”, nessun partito avrà la maggioranza assoluta. E’ già accaduto nel 2010, e anche prima di allora, ma generalmente gli inglesi, quando vanno a votare, pensano di eleggere un governo, mentre ora si stanno abituando all’idea che eleggono un Parlamento, e che là dentro i partiti faranno le alleanze di cui hanno bisogno.
Non soltanto nessuno risponde alla domanda “chi vince?”, ma non è nemmeno detto che chi vince poi riesca a racimolare quei 326 seggi (in realtà ne bastano 323) necessari per avere la maggioranza nella Camera dei Comuni e formare un governo. Se laburisti e conservatori si assestano attorno ai 280/300 seggi ciascuno, il vuoto da colmare spetta agli altri partiti. Gli indipendentisti scozzesi dell’Snp “possono arrivare a 45, 49 seggi”, dice Hanretty, e quando gli chiedo se non stiamo esagerando riguardo all’ascesa di Nicola Sturgeon, leader dell’Snp, risponde: “No, anzi questa è una stima cauta”, c’è chi sostiene che l’Snp porterà via tutti i seggi laburisti della Scozia: “A one party state within a state”, come ha detto Patrick Wintour, star del giornalismo britannico che lavora al Guardian (che sia una star si vede da come arriva buon ultimo ad ascoltare un discorso di Ed Miliband, la giacca allacciata storta, lo zaino strapieno, non c’è posto a sedere e se ne frega, passa il tempo a tuittare, poi si mette a scrivere l’articolo con il computer sulle gambe, come fanno i suoi colleghi, poco dopo è online e senza ripensamenti sfodera il suo sorriso sibillino).
La sorpresa sta nell’exploit del Snp, che potrebbe determinare una coalizione con il Labour, al momento esclusa da tutta la leadership laburista in coro. Si può pensare invece più facilmente a un’alleanza, che prevede un voto comune sulle questioni sensibili, ma non a un governo gestito insieme: in questo caso il Labour guiderebbe un governo di minoranza. I liberaldemocratici, che già nel 2010 hanno torturato la propria identità per arrivare alla coalizione con i Tory (il film “The coalition” lo spiega benissimo), oggi hanno perso quasi metà del consenso di allora, ma, con i loro 25-30 seggi stimati, sono comunque importanti per arrivare alla maggioranza, così come lo sono gli unionisti democratici dell’Irlanda del nord con i loro otto seggi (il leader del Dup, Peter Robinson, non ha mai rilasciato tante interviste come in questi giorni, si sente fortissimo nei panni del kingmaker, e attacca Cameron per la sua debolezza con la Scozia). Da ultimo, i conservatori sembrano più avanti nei sondaggi, ma per loro formare una maggioranza è più difficile: possono contare quasi soltanto sui liberaldemocratici.
Chris Hanretty spiega gli scenari alternativi, ricordando che “il primo ministro in carica è David Cameron” e che in caso di quasi parità sarà con tutta probabilità lui a cercare di formare le alleanze: nel 2010 Gordon Brown, che pure aveva perso in modo piuttosto doloroso le elezioni, era il primo ministro e avviò negoziati paralleli a quelli di Cameron, che finirono soltanto quando fu chiaro che i Lib-Dem di Nick Clegg avevano scelto i Tory. “I partiti minori possono dare il loro appoggio al partito con la maggioranza relativa per i voti di fiducia – continua Hanretty – senza sostenere l’intero programma”. Se Cameron pensa di potercela fare, il suo primo test sarà alla Camera dei Comuni il 27 maggio, quando è necessario votare il programma legislativo del governo, il famoso “Queen’s Speech”. Una sconfitta in quell’occasione potrebbe non essere decisiva per mandare via Cameron, ma i laburisti potrebbero organizzare un voto di sfiducia, e vincerlo: in quel caso ci sarebbero 14 giorni di tempo per formare un governo, altrimenti si deve tornare a votare (la Regina, durante le negoziazioni, sta lontana da Londra, nel Castello di Windsor).
Poiché regna l’incertezza, i due leader dei partiti maggiori fanno finta di niente. “E’ tattica – spiega Tim Bale, professore e commentatore politico che ha scritto libri belli sui Tory e ha appena pubblicato un saggio sui cinque anni di leadership di Ed Miliband, “Five Year Mission” – Nessun grande partito vuole mettersi a discutere adesso di possibili coalizioni, altrimenti dovrebbe rispondere alle domande sul prezzo delle alleanze, cosa si concede, cosa si negozia, e né Miliband né Cameron hanno intenzione di farlo”. Così c’è un alto tasso di bullismo, uno contro l’altro armati, come se i partiti piccoli non contassero – e invece saranno decisivi. I commentatori politici si stanno specializzando nei cosiddetti “articoli tecnici”, nei quali, numeri alla mano, spiegano quali sono le alternative possibili e ne commentano la fattibilità – per questo si lamentano della noia, ma ormai senza un grafico colorato e i numeri è difficile spiegare quel che sta accadendo.
I laburisti hanno approfittato della confusione per ricostruire l’immagine del loro candidato premier, che ha sempre avuto una certa doppiezza: cauto al punto di essere indeciso da un lato, sognatore (con venature da ideologia di cambiamento in stile obamiano) dall’altro. Gli uomini del team di Miliband hanno come obiettivo quasi esclusivo il controllo, lo vedi da quanto sono guardinghi, circoscrivono le chiacchierate alle banalità, selezionano il pubblico presente agli eventi (tranne rare eccezioni), scelgono quali giornalisti possono fare o no le domande (i Tory, va detto, non sono da meno). Non c’è soltanto un rapporto difficile con i media: a lungo molti parlamentari si sono lamentati del fatto che il leader non permettesse loro di dire alcunché. Il timore di gaffe è alto, e siccome ogni voto è importante, non ci si può permettere eccessiva flessibilità: Miliband deve risultare “confident-and-cool”, un bravo ragazzo che è riuscito a togliersi un po’ del timbro nasale tanto ridicolizzato, con una visione precisa e ottimista del Regno Unito, non la “caricatura che fanno di me”, come dice spesso lui. Secondo Bale, il leader laburista “ha superato le aspettative”, ché tutti si aspettavano performance mediocri nei dibattiti e comizi elettorali poco appassionati: “Per chi lo conosce non è una sorpresa: è un ragazzo molto intelligente”, dice Bale che nell’elenco delle tre maggiori forze del candidato premier mette: “La resistenza, l’autostima, la capacità di aver tenuto insieme il partito quando, dopo il 2010, c’è stata la guerra civile nel Labour”: scoppiavano granate dappertutto, come ha detto Lucy Powell, regina della campagna elettorale di Miliband (che alle sei del pomeriggio, qualsiasi cosa accada, recupera suo figlio di un anno dalla nursery di Westminster). Tra le debolezze di Miliband invece Bale segnala che “ci mette troppo tempo per prendere una decisione, è risultato a volte indeciso, e non è riuscito a convincere il mondo del business che la sua formula è la migliore”. Si ritorna sempre alle granate scoppiate nel partito, che hanno origine nella faida tra blairiani e browniani e si sono poi incanalate nella contestazione della leadership di Ed Miliband.
Leggenda vuole che il “brain”, il cervello, nella famiglia Miliband fosse il fratello David, autoesiliatosi a New York dopo essere stato tradito e battuto dal fratellino nella gara per la leadership, che Ed ha vinto con meno dell’un per cento di vantaggio grazie al sostegno dei sindacati, ma se provi a citare David molti laburisti alzano gli occhi al cielo, ti guardano come se fossi scema – “davvero credi ancora alla favola della rivalità tra fratelli?” – e dicono che è soltanto lo spin conservatore a voler insistere su quella “pugnalata alla schiena”. Ed è un bravo ragazzo, quindi, intelligente, spigliato, e la sua determinazione ce la spiega Stewart Wood, che è considerato la personalità più rilevante del team di Miliband, “l’unico che non ha i pantaloni corti”, aveva detto un anno fa una fonte anonima allo Spectator. E’ il più “radicale” del team, il consigliere di Ed quando si doveva sferrare la pugnalata al fratello: nulla di personale, diceva, ma una barriera va creata. “Gli inglesi sono noti per il loro pragmatismo e per il loro scetticismo nei confronti delle idee – dice Wood, che accompagna Miliband a ogni incontro e non si fa sfuggire nulla, dalla strategia politica alla comunicazione al rapporto con i giornalisti – Ma Ed pensa che la base della politica è determinata dalle idee. Incoraggia nuovi modi di pensare, invita persone fuori dalla stretta cerchia politica per discutere metodi di pensiero innovativi: viene da una famiglia che ha sempre amato le idee e che le ha rese una professione, suo padre era un accademico marxista alla London School of Economics. Ed vuole anche che le idee facciano una differenza nella vita reale”.
Buona parte delle idee di Miliband sono nate conversando con Stewart Wood. Rafael Behr ha raccontato sul Guardian che il giorno in cui il New Labour di blairiana concezione è morto – cioè l’11 maggio del 2010, quando David Cameron decise di formare il governo con i liberaldemocratici spezzando le speranze di governo del perdente Gordon Brown – Ed Miliband invitò Wood nel suo tinello per parlare di come rifondare il partito. I due si erano conosciuti nel 1995, a Berlino, dove Wood stava studiando per il suo PhD. Quando Miliband entrò nel team di Gordon Brown all’inizio degli anni Duemila, portò al Tesoro anche Wood nel ruolo di consigliere, e da allora il sodalizio non si è interrotto. Insieme hanno studiato “Varieties of Capitalism”, un libro del 2001 scritto da David Soskice e Peter Hall (entrambi gli autori avevano supervisionato il PhD di Wood, Hall ha invitato Miliband a tenere alcune lezioni ad Harvard nel 2002) che cataloga i modi con cui i paesi sviluppati hanno mescolato capitalismo, diritti dei lavoratori, regolamentazioni e tasse. L’obiettivo congiunto era trovare una formula che non rinnegasse il capitalismo ma non rendesse il Labour schiavo del mercato, come, secondo la loro opinione, era accaduto durante il dominio blairiano. Quando gli esperti dicono che Miliband ha riportato il partito agli anni Settanta, non vanno molto lontano dalla verità, ma il punto è che non si tratta di uno scivolamento retrò non voluto, si tratta di una strategia precisa: Wood è convinto che questi anni siano paragonabili agli anni Settanta, e che la scommessa del Labour debba essere quella di fare una rivoluzione: come fece la Thatcher, ma a sinistra.
Ed Miliband non ha il physique du rôle della Lady di ferro. Visto da vicino alla Chatham House, dove ha tenuto il suo primo discorso di politica estera a una decina di giorni dalle elezioni, il leader laburista appare tanto preciso quanto poco appassionato. E’ l’effetto del controllo assoluto del suo team, che evita le goffaggini che hanno scandito la vita politica di Miliband – compreso il discorso alla conferenza di partito nel settembre scorso quando decise di parlare a braccio e si dimenticò la parte riguardante il deficit – ma esclude ogni guizzo, c’è spazio soltanto per qualche battuta qui e là, e pure quelle sembrano studiate. Essendoci abituati a politici che non sfigurerebbero in un cabaret, la calma competenza di Miliband pare di un’altra epoca, ma le idee, ammesso che siano buone, non parlano da sole: qualcuno deve saperle vendere. David Axelrod, architetto dell’obamismo assoldato dal Labour si dice per un compenso di 300 mila sterline – e molti sostengono che Axerlod non si sia guadagnato il suo stipendio d’oro, è stato troppo distratto –, ha dato alcuni consigli a Miliband che vengono tramandati dai giornalisti inglesi e tra questi ce n’è uno che riguarda proprio l’immagine: “Se ti riduci a essere un politico convenzionale, come il tuo sfidante, nessuno vincerà”. Sembra una profezia che si autoavvera, ma per non essere convenzionale Miliband ha dovuto fare ben più fatica del suo rivale Cameron, perché su di lui pesa non soltanto un deficit di immagine ma anche la ristrutturazione di una sinistra che è stata a lungo vincente ma che poi è stata accusata di aver trascinato il paese nello choc finanziario del 2008. Smarcarsi dalla propria immagine e smarcarsi dalla storia recente del partito, combattendo contro un governo che ha riportato il Regno Unito a una crescita appena sotto al 3 per cento, per quanto l’ultimo dato di ieri, la crescita dello 0,3 per cento nell’ultimo trimestre, sia peggiore delle attese che erano dello 0,6 per cento: come fare?
Secondo alcune fonti, Wood avrebbe voluto una virata a sinistra decisa, ma Miliband gli ha sempre detto che il Labour non sarebbe diventato radicale quanto il principe dei suoi consiglieri avrebbe voluto. Nel tentativo di imporre una nuova idea che potesse trovare consenso tra gli elettori, Miliband è passato attraverso l’etica del capitalismo e lo scontro tra “predatori e produttori”, che nel 2011 fece svenire buona parte dei blairiani presenti nel partito e altrettanti imprenditori e finanzieri legati al Labour, per arrivare a parlare di qualità della vita e dei costi quotidiani delle politiche conservatrici. La promessa di congelare i prezzi dell’energia, fatta nel 2013, determinò uno dei momenti migliori, per quanto breve, della carriera di Miliband. La teoria economica che prendeva forma nel Labour s’aggirava attorno al concetto di capitalismo responsabile: la responsabilità, dopo gli eccessi che causarono la crisi del 2008, era un tema parecchio navigato, tutti volevano essere responsabili. Ma se i Tory hanno declinato la responsabilità sul fronte del rigore dei conti – l’austerità – Miliband l’ha venata di istinti anti sistema più decisi, infilando morale e diseguaglianza nelle sue proposte, trasformandosi così nel “nemico numero uno dei ricchi”. Il risultato è che oggi la quasi maggioranza della City e del mondo del business lancia appelli accorati per ammonire gli inglesi sul pericolo di una vittoria laburista al voto del 7 maggio: questa sì è una grande frattura nei confronti del passato laburista, perché con Tony Blair al comando il mondo del business e della finanza era per lo più diventato sostenitore del Labour (c’era allora tra i fan anche Rupert Murdoch, l’editore globale che da decenni adora fare il kingmaker della politica britannica, oggi nemico giurato di Miliband: non che il tycoon australiano sia molto esaltato nei confronti di Cameron, ma gli attacchi subiti dalla compagine laburista durante lo scandalo degli hackeraggi sono duri da dimenticare, impossibili da perdonare).
[**Video_box_2**]I più pragmatici nella City sostengono che il pericolo rosso – rappresentato dal nomignolo “Red Ed” che ha permesso a Miliband di vincere la leadership del partito – sia un’esagerazione: il programma economico del Labour prevede sì più tasse ai ricchi, l’eliminazione dei privilegi dei non-dom, i facoltosi “nuovi ricchi” di Londra non domiciliati in Inghilterra (sono tanti, se si guarda la “rich list” pubblicata dal Sunday Times domenica ai primi posti ci sono soltanto stranieri), un aumento del salario minimo e una diversa gestione della spesa finanziaria, ma introduce un rigore fiscale finora inespresso. “Non è poi così radicale questo Labour”, dice un ragazzo della City (che resta anonimo perché “lo scatolone per mettere dentro le mie cose se mi licenziano mi fa orrore”), lo spauracchio della svolta marxista fa parte della campagna elettorale, “si sa che Miliband vorrebbe riportare la sinistra nel suo alveo originario, ma poi ha sufficiente pragmatismo per saper gestire un governo che non si aliena tutti gli investitori”. Ma la mania del leader laburista di infarcire la sua retorica con i proclami resi celebri da Occupy Wall Street basta a generare un’incertezza che, dopo lo choc subìto e rimarginato, pochi nel mondo della finanza vogliono affrontare. Anche l’Economist ha sottolineato che Miliband sembra più interessato a “riproporzionare la distribuzione della ricchezza che a crearla”. Ma se “le sue critiche” a chi fa business “sono spesso giustificate”, “l’effetto dei suoi attacchi seriali, mai addolciti da qualche lode alle imprese, è che appare come un sinistrorso ingenuo, poco preoccupato per l’imprenditoria e lontano da quella middle class sul cui sostegno i governi inglesi sono generalmente formati”. Ma la minaccia “rossa” del Labour è fortemente esagerata, continua il magazine, non soltanto perché cambiare il capitalismo inglese, una volta al governo, sarebbe invero difficile, ma perché Miliband “ha fatto ben poco per preparare il suo partito a reagire ai tagli dei conservatori che denuncia da cinque anni”.
[**Video_box_2**]Nemmeno la questione europea, che pende sul destino inglese assieme alle tante elucubrazioni sul futuro dell’unione del Regno, riesce a compensare la passiva propensione del mondo finanziario a restare con un governo conosciuto: gli europeisti temono che con i Tory ancora al governo l’instabilità sarà maggiore, ma gli euroscettici, che esistono anche nella City ovviamente, sostengono o che il referendum aiuterà l’Unione europea a riformarsi o che la cosiddetta Brexit non sarà poi così destabilizzante (c’è la tendenza nel mondo finanziario a non considerare più così letale il fatto che l’Europa perda dei pezzi). Stewart Wood riflette sul rapporto tra la sinistra che immagina al potere a Londra dopo il 7 maggio, quella che ha contribuito a forgiare reinventandosi anche come il più grande castigatore dei Tory (basta seguirlo su Twitter, non perdona), e le sinistre continentali: “Dopo molti anni di magra dal 2008, un nuovo tipo di centrosinistra progressista sta emergendo in Europa”. Per definire questa sinistra, che sul continente fa riferimento alla leadership di Matteo Renzi in Italia e di Manuel Valls in Francia, Wood dice che è una sinistra che “si occupa della diseguaglianza, ma anche della competitività e della produttività. Vuole assicurarsi che le regole che governano l’economia siano giuste, ma anche efficienti, in modo da evitare che interessi privilegiati prendano il sopravvento sull’interesse pubblico”. Soprattutto “è un centrosinistra che ha preso un impegno con l’Unione europea”, e non vuole sciogliere il vincolo. L’impegno è un altro dei termini chiave della visione del Labour di Ed Miliband e visto in una prospettiva più ampia ha a che fare con il ruolo che il Regno Unito vuole giocare nel mondo. “La principale differenza tra noi e i Tory – spiega Wood – è l’importanza del ‘re-engagement’ del paese nel mondo, in particolare con l’Unione europea. Con David Cameron, il Regno Unito ha sperimentato la più grande perdita di influenza internazionale degli ultimi vent’anni. Su temi cruciali come la crisi ucraina o i rapporti con Bruxelles, Cameron ha messo il paese ai margini, rendendosi ostaggio dell’euroscetticismo e non valorizzando l’interesse nazionale britannico”. Il Labour vuole riportare il Regno Unito nel mondo, “non faremo un referendum nel 2017 sulla nostra membership in Europa sulla base di una scaletta temporale artificiale”, dice Wood, insistendo sulla necessità di levarsi dall’isolamento e di reimpegnarsi in Europa “come in tutte le organizzazioni multilaterali”.
Che ne è allora dell’interventismo liberal che ha caratterizzato il New Labour e la politica estera anglo-americana a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila? “Il Regno Unito, assieme ai nostri alleati, deve giocare un ruolo attivo nel portare stabilità nel mondo – dice Wood – Il modo migliore per farlo è attraverso il soft power e la solidarietà internazionale. Quando si parla di interventi militari, non escludiamo il coinvolgimento delle forze inglesi in alcune situazioni più gravi, ma dobbiamo imparare dagli errori fatti durante la guerra in Iraq del 2003”. Eccola, un’altra frattura con il passato, la più forte e anche quella che genera maggior consenso nella base del partito, visto che la maggior parte degli inglesi considera Tony Blair, architetto di quel conflitto, alla pari di un criminale di guerra. “L’intervento militare deve essere una ‘last resort’ – dice Wood – Deve essere in partnership non solo con gli alleati, ma anche con i paesi delle regioni coinvolte; deve esserci un piano per assicurare stabilità e pace dopo i conflitti, non basta semplicemente vincere una guerra; e ogni azione deve essere organizzata con le istituzioni internazionali, non aggirandole”.
Il mondo visto attraverso la lente del Labour non pare destinato a stabilizzarsi con urgenza, ma non è che a Londra ora quel che accade fuori dai confini inglesi importi molto, se non per le questioni legate all’immigrazione, le più sentite dagli elettori, le più delicate nel dibattito politico, anche a causa della presenza degli indipendentisti dell’Ukip (che ora aspirano al massimo a quattro seggi): Miliband ne ha parlato ieri, quasi a sorpresa, dopo che il ministro dell’Interno ombra, la potente Yvette Cooper, si era rifiutata di dire, per quattro volte di fila, se ci sarà un tetto al numero di immigrati che potranno entrare nel paese (non ci sarà). Mentre nessuno riesce a dire con precisione che cosa accadrà se il Labour vince, forse la sanità migliorerà e i ricconi non si aggireranno più con il loro fare spaccone per le strade di Londra, tutto gira attorno alla campagna elettorale “ugly”, brutta e brutale, in cui i leader politici vengono ridicolizzati di continuo, dimenticando che poi uno di questi sarà il prossimo primo ministro inglese. Ieri, per dire, si festeggiava il quarto anniversario dell’“Ed Balls Day”, che non è una vacanza nazionale, ma il ricordo della rete (il cosiddetto paese reale non sa nemmeno di cosa si stia parlando) di quando il cancelliere dello Scacchiere ombra, soprannominato “il bulldog di Keynes” dalla rivista New Statesman, aveva tuittato il suo nome per sbaglio: voleva in realtà cercare che cosa si diceva di lui sul social media. La celebrazione viaggia allo stesso livello del gran clamore che hanno scatenato le fan di Miliband – il cosiddetto “Milifandom”, l’offensiva di ragazzine su Twitter che hanno iniziato a dire quanto è figo il leader laburista – che ora vengono citate in ogni intervista, come se ci fosse una correlazione tra i toni più rilassati di Miliband e la recentissima consapevolezza di essere carino. Oppure da giorni ci si interroga sul fatto che il leader del Labour non abbia ancora detto ai suoi figli, di 4 e 5 anni, che potrebbero dover traslocare entro breve: scaramanzia? menzogna? convinzione di perdere?
La risposta ovviamente non c’è, così come non si sa che cosa sia andato a fare Miliband, due sere fa, a casa di Russell Brand, l’artista inglese famoso per aver detto ai giovani: non votate, non serve a niente. La versione ufficiale dice che Miliband sia andato per un’intervista, i giornalisti sostengono che sia andato a conquistarsi un endorsement che nel pubblico di disaffezionati che ama Brand potrebbe determinare un efficace “swing” a suo favore, ma a vincere è stata l’ironia della columnist Deborah Orr: “L’incontro era ovviamente organizzato perché Russell convincesse Ed a non votare, tutto questo speculare è inutile”. Così, mentre scorre il countdown e ogni giorno assomiglia a quello precedente, c’è chi lancia l’idea di un governo di unità: Adam Boulton, anchorman di Sky News, ha scritto sul Sunday Times che l’unico modo per dare rappresentanza al voto inglese sarebbe una coalizione tra laburisti e conservatori. In questo modo la maggioranza sarebbe garantita e d’altra parte ci sono meno differenze tra i due grandi partiti che tra loro e alcuni dei piccoli. “Quest’invenzione tedesca”, come la chiama Boulton, non ha grandi chance di realizzarsi, ma nell’elenco degli scenari, i sondaggisti non escludono più nemmeno un Nazareno english style.
I conservatori inglesi