La marcia contro Charlie Hebdo
Roma. Si allarga il boicottaggio degli scrittori sul premio del Pen a Charlie Hebdo. Sei letterati non parteciperanno alla serata in segno di protesta: si tratta del vincitore del Booker Prize Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi. Su Vanity Fair si è unito al boicottaggio James Wolcott, membro del Pen e vincitore un anno fa del premio alla critica: “Detesto la censura e disprezzo l’uso della violenza come mezzo per imporre il silenzio. Credo che Charlie Hebdo abbia tutto il diritto di pubblicare quello che vuole. Ma non vuol dire che Charlie Hebdo meriti un premio”. Sul Guardian, la scrittrice Francine Prose compie un salto di qualità ideologico: “Il Primo emendamento garantisce il diritto dei neonazisti di marciare a Skokie, Illinois, ma non per questo diamo loro un premio”. Ci mancava solo la nazificazione dei giornalisti massacrati a Parigi. Stesso tenore per Deborah Eisenberg, autrice di libri di infanzia che ha scritto una lettera alla direttrice del Pen, Suzanne Nossel. Eisenberg definisce Charlie Hebdo “l’esempio più insipido, senza cervello e spericolato di libera espressione che può essere trovato in giro”. Poi paragona Charlie Hebdo alla fraternità Sigma Alpha Epsilon che intona cori razzisti. “Anche i razzisti delle fraternità sono meritevoli del premio?”. Anche l’editor del magazine letterario Tin House, Rob Spillman, accusa Charlie Hebdo di essere “razzista”.
Nato nel 1921, il Pen si è trovato coinvolto, fin dal periodo nazista, nella lotta per la libertà di espressione. E i dirigenti di allora dovettero sciogliere il Pen tedesco, che aveva preso posizione per Hitler, anziché per Thomas Mann. Nel 1988 il capitolo americano dell’associazione rifiutò Giovanni Paolo II come membro onorario. Il presidente, la scrittrice Susan Sontag, disse che il Papa “reprime il dissenso all’interno della chiesa”. E quando fu invitato il segretario di stato Shultz, al Pen scoppiò il finimondo, con gli scrittori che balzarono in piedi gridando “se parla lui, io me ne vado” e un appello firmato da sessantacinque romanzieri che definì “inappropriata” la presenza di un ministro di Reagan. Ma fu nel 1966 che emerse l’ipocrisia del Pen di fronte al totalitarismo. C’era da scegliere se stare con Ignazio Silone, l’antifascista e anticomunista velenosamente attaccato come rinnegato dai banditi cominternisti, o con Don Pablo Neruda. E fu il poeta rosso, voluto al Pen da Arthur Miller, a essere bersagliato dai flash dei fotografi al pari di una star e a raccogliere più consensi. Lo scrittore abruzzese elogiò gli intellettuali della rivolta in Ungheria e in Polonia e difese l’autore del “Dottor Zivago”, Boris Pasternak. A tenere banco al Pen i casi di Andrei Sinyavsky, lo scrittore finito nel gulag per aver pubblicato sotto pseudonimo in occidente, e di Valery Tarsis, anche lui in esilio. Neruda diede del “clown” a Tarsis e, a domanda su Pasternak rispose: “Non sono d’accordo quando gli scrittori sono perseguitati per il loro lavoro. Ma penso anche che sia mio dovere non contribuire alla Guerra fredda”.
Su Charlie Hebdo siamo ancora ai “ma” degli intellettuali e a una mostruosa campagna ideologica lanciata, ieri, contro gli eretici anticomunisti, e oggi contro gli eretici “islamofobi”. “Luz”, il più noto dei vignettisti di Charlie Hebdo, ieri ha annunciato che non firmerà più lavori su Maometto. Perché alla lunga la campagna d’odio funziona.