Nel nome del padre
New York. Nick Loeb è un quarantenne rampollo di Wall Street, nelle sue vene scorre il sangue dei finanzieri Loeb e dei fratelli Lehman. La sua è una storia di opulenza e di eccentricità, di feste nei salotti nobili del mondo, di matrimoni combinati e falliti, di genitori giramondo troppo impegnati per occuparsi dei figli; è anche la storia tragica di una madre, la sua, che uccide il terzo marito e poi si suicida. A dispetto di tutto questo, o forse proprio a causa di tutto questo, Nick ha un desiderio piuttosto ordinario, diventare padre e mettere su una famiglia normale come quelle dipinte da Norman Rockwell. Ha usato proprio questa immagine nell’editoriale apparso sul New York Times in cui racconta le sue relazioni sgretolate, l’aborto della ragazza con cui stava quando aveva vent’anni, vicenda nella quale non ha avuto voce in capitolo, i quattro anni con la ex moglie senza riuscire ad avere figli.
Credeva di aver trovato nella supermodella Sofia Vergara la compagna di vita con la quale avrebbe finalmente messo su famiglia. Ha accettato di mettersi sulla via dell’utero in affitto ed era devastato quando i primi due embrioni generati dalla loro unione in provetta non hanno attecchito. Allora ne hanno fatti altri due, due femmine, ma nel frattempo era “diventato chiaro che diventare genitore era più urgente per me che per lei. Eravamo insieme da quattro anni. Quando stavo per avvicinarmi ai quarant’anni, le ho dato un ultimatum. Lei ha rifiutato, e ci siamo lasciati”.
Soltanto che in un laboratorio ci sono ancora quei due embrioni congelati che si affacciano sulla coscienza di Nick e che sono diventati materia scottante per gli avvocati. Lui li vorrebbe riscattare, se così si può dire, sollevando l’ex fidanzata da qualunque responsabilità o onere finanziario, ma l’avvocato di lei dice che vorrebbe “lasciarli congelati a tempo indeterminato”. Così, stranamente, in un universo legale che si sta rapidamente rimodellando per soddisfare qualunque capriccio di maternità e paternità legalizzando manipolazioni biologiche sempre più sofisticate, Nick non solo non riesce a generare una vita, ma contribuisce a condannare a morte le vite che già esistono. Vite generate, siamo al paradosso, per soddisfare la voglia di vita. “Per come vedo le cose, tenerli congelati per sempre equivale a ucciderli”, ha scritto.
[**Video_box_2**]Loeb è figlio di padre ebreo ma è stato battezzato in una chiesa episcopaliana, quella della madre. Chi però gli ha fatto effettivamente da madre, racconta, è una tata cattolica irlandese di nome Renee, morta di recente. E’ lei che lo ha educato, trasmettendogli anche un certo sacro rispetto e senso di fragilità della vita che ora riemerge in queste circostanze da reality show, dove celebrities si azzuffano tramite gli avvocati su qualunque cosa, compreso ciò che può essere visto come un brandello di codice genetico sui cui mettere le royalties, oppure un grumo di vita che potrebbe venire alla luce, se non fosse congelato lì per sempre. “Molti mi hanno chiesto: perché non vai avanti e non ti fai una famiglia tua? Ho tutta l’intenzione di farlo. Ma questo non significa che debba lasciare che le due vite già generate vengano distrutte o rimangano in un freezer fino alla fine dei tempi”. Questa battaglia, scrive Loeb, “non è soltanto per salvare vite, ma anche per stare dalla parte dei genitori”.