L'irrilevanza del giornalismo nell'epoca del potere disintermediato
New York. “Il giornalismo non esiste” è la massima che si ripete a Washington da quando il leader uscente dei democratici al Senato, Harry Reid, l’ha coniata, in seguito all’ennesima bufala. Un tizio di nome Larry Pfeifer aveva passato a un gruppo di blogger e attivisti conservatori una notizia completamente falsa: Reid non si era procurato l’infortunio all’occhio di cui ancora porta i segni mentre faceva esercizio nella sua casa di Las Vegas, ma in realtà era stato picchiato dal fratello. Era soltanto un ballon d’essai per vedere quanto e per quanto l’incredibile storiella si sarebbe propagata nella cassa di risonanza dell’informazione digitale.
L’esperimento è riuscito talmente bene che anche alcuni media tradizionali, se ancora il termine è lecito, hanno ripreso la notizia, e quando la bolla è scoppiata un gongolante Reid ha colto l’occasione per enunciare una proposizione generale: “Il giornalismo non esiste”. Gli hanno chiesto se era arrabbiato con il tizio che propina bufale, ma lui è tutt’altro che arrabbiato e nemmeno pensa che debba scusarsi pubblicamente, perché la trovata “mostra quanto sia sciocco il giornalismo come lo conosciamo. Sta evaporando, e questo è un male”. La notizia dell’inesistenza del giornalismo è fortemente esagerata, certo, ma offre lo spunto per l’osservazione di un fenomeno che la campagna elettorale incipiente ingrandisce e rende più nitido: l’irrilevanza del giornalismo “as we know it”, come dice Reid. C’è stato un tempo antico in cui il passaggio dei messaggi elettorali dal candidato all’elettore dipendeva in larga parte dai giornalisti. Certo, per far arrivare il programma nelle case degli americani c’erano molti modi, ma chi costruiva l’ineffabile “narrativa” (se ancora il termine è lecito)? Chi dava volto, spirito, tridimensionalità, emozione a chi ambiva alla poltrona di leader del mondo libero? I cronisti, naturalmente. I quali ricevevano in cambio ampio accesso e vicinanza ai candidati, e quello era lo spazio più o meno aperto della contesa, dove lo spin e le domande puntute lottavano lealmente nella fanghiglia delle notizie e dei retroscena. La politica, insomma, aveva bisogno dei giornali per raccontarsi, e così li corteggiava, offriva concessioni, si apriva ai potenziali rischi che un ficcanaso con il taccuino spesso comporta.
Mark Leibovich, che dei cronisti politici è un decano, scrive che la dinamica si è completamente rovesciata. “I candidati di oggi si muovono in un ambiente in cui la dinamica del potere fra politica e media è sbilanciata a loro favore. Le campagne non si affidano più così tanto ai media per comunicare. Possono fare i loro siti e i loro tweet come vogliono, e affidare il resto alle loro macchine ausiliarie del rumore (i super Pac). Siccome i media sono diventati più estremi politicamente, i candidati possono scegliere con più agio con chi parlare, sapendo che alcuni sono amichevoli, e rifiutando quelli ostili”.
[**Video_box_2**]Il fatto è che il rifiuto di comunicare con i media ostili è a costo zero. Hillary Clinton può tranquillamente permettersi di ignorare Andrea Mitchell, veterana della copertura poco simpatizzante della famiglia Clinton, quando si fa strada fra la corte e pervicacemente l’apostrofa: “Mrs. Clinton! Hillary! Ma’am!”. Lei finge di non sentire e prosegue per la sua strada, sapendo che la cosa non avrà conseguenze: Mitchell ha bisogno di Hillary molto più di quanto Hillary abbia bisogno di lei. La candidata ha milioni di altri modi per veicolare il suo messaggio direttamente a chi deciderà se sarà o meno il prossimo presidente degli Stati Uniti. E’ lo strano effetto della disintermediazione, se ancora il termine è lecito, che è un concetto bello e smart quando s’applica all’utente emancipato che finalmente ha accesso alle informazioni senza mediatori, ma è più oscuro e complicato se a usarlo a loro vantaggio sono i candidati alla presidenza. Un giorno arriveranno a dire che il giornalismo non esiste.
I conservatori inglesi