Combattimenti tra guerriglieri estremisti e forze del governo vicino alla raffineria di Baiji, la più grande dell’Iraq

Come si fa la guerra al califfo

Daniele Raineri
Gli americani hanno disimparato come si combatte e ora in Iraq dovrebbero prendere esempio dalle grandi insurgency africane nei ’70, ci spiega un super consulente privato.

Due giorni fa il Pentagono ha detto che c’è il rischio che la raffineria più grande dell’Iraq a Baiji cada nelle mani dello Stato islamico. Il caso ha dell’incredibile: l’impianto, poco a nord di Tikrit, è conteso da mesi tra i combattenti dello Stato islamico e i soldati del governo. Ogni tanto esce fuori un video in cui i guerriglieri fanno breccia nel perimetro, poi su internet dicono di avere vinto del tutto, a quel punto il governo smentisce, pubblica controvideo, la battaglia va avanti negli stessi pochi chilometri quadrati pezzo per pezzo, senza far troppi danni perché entrambe le parti vogliono fare del sito un pezzo pregiato dei propri domini. Baiji è un buon esempio di quello che non capiamo in Iraq. Come sta andando la guerra, chi sta vincendo e chi sta perdendo? L’impressione che si ha qui in occidente, che in fondo basterebbe una divisione corazzata di un esercito moderno per cacciare queste bande di jeep e combattenti barbuti, è sbagliata? Gli americani stanno facendo bene? Perché è in corso una campagna che sembra infinita di bombardamenti e sembra di essere sempre allo stesso punto? Ne parliamo con Alexandre Mello (su Twitter è @memlikpasha), capo analista per l’Iraq della Horizon Access, una compagnia di consulenza che spiega alle grandi imprese anche petrolifere cosa sta succedendo in Iraq – dove sono i posti più sicuri, dove sono i posti meno sicuri, cosa succederà nei prossimi mesi.

 

Nella conversazione con Mello viene fuori un argomento solitamente trascurato: quella in Iraq (e in Siria) non è la prima guerra di questo tipo, anzi. L’analista fa un confronto con le insurrezioni degli anni Settanta, specialmente quella in Rhodesia, dove una minoranza bianca resistette per quindici anni a un enorme movimento guerrigliero che trovava appoggio negli stati confinanti. La Rhodesia poi divenne lo Zimbabwe, dopo gli accordi di pace (e il suffragio universale) del 1979. Non si trattò di una guerra pulita, c’erano colonialismo, atrocità e interferenze sovietiche, il discorso politico occuperebbe volumi. Quello militare però, dice Mello al Foglio, offre paragoni interessanti per capire cosa sbagliano oggi gli americani contro lo Stato islamico in Iraq e quali concetti militari si potrebbero applicare con efficacia maggiore, se ci fosse un po’ più di coraggio.
Sui giornali internazionali si trova sempre un titolo diverso: un giorno lo Stato islamico sta guadagnando terreno in Iraq, un altro giorno lo sta perdendo – qual è la verità ragionevole? In Iraq, spiega Mello, fatta eccezione per la regione di Anbar, che è davvero un teatro di guerra separato, lo Stato islamico sta perdendo terreno e iniziativa, all’incirca a partire da settembre e dall’inizio di ottobre del 2014. Lo Stato islamico non riesce a fare quello che i militari chiamano “area denial”, che è un concetto militare che dice che devi negare al nemico la presenza incontestata su un territorio e lo puoi fare per esempio con continue imboscate o con colpi di artiglieria. Lo Stato islamico non riesce, punto numero due, a difendere con successo il terreno contro le offensive su larga scala delle forze governative irachene o dei peshmerga curdi – e infatti l’area che controlla ufficialmente si sta rimpicciolendo, rosicchiata ogni settimana. Però lo Stato islamico è ancora vigoroso e in forma, lancia contrattacchi locali a ripetizione, apre nuovi fronti simultaneamente e in certe aree aumenta il numero degli attacchi per tenere le forze governative sbilanciate e occupate in troppi posti.

 

Lo Stato islamico in Iraq ha capito che ci sono soltanto poche unità buone nelle forze di sicurezza irachene – e sono la “Divisione d’oro”, alcune altre forze speciali e poche brigate dell’esercito iracheno e della polizia federale. La mancanza di unità buone a difendere il territorio ripulito implica che i fronti si riaprono di continuo (per esempio la raffineria di Baiji, o Ramadi) e che lo Stato islamico si infiltra sempre e di nuovo nelle aree messe in sicurezza (Diyala, oppure la periferia di Baghdad). Quando gli insurgent riescono a infestare di nuovo le aree liberate, poi cominciano ad aumentare gli attacchi per restringere sempre di più la libertà di movimento dei soldati e creare delle “no-go area” (le zone in cui i militari non osano mettere piede). La regione di Diyala è un primo esempio di questo processo – il governo l’ha dichiarata ripulita a gennaio, ma il numero di attacchi è sempre costante da novembre. Semplicemente, i guerriglieri si sono prima dispersi e poi raggruppati in altre aree, con il risultato che le forze del governo stanno come strizzando un palloncino, liberano un’area e quelli spuntano in un’altra.

 

Ma allora questa campagna di bombardamenti americani, che è stata definita “alla moviola”, può sul serio infliggere danni? Sta funzionando? Oppure è troppo rarefatta? E’ un preludio a un intervento più grande o è soltanto una misura di contenimento?
L’America sta facendo essenzialmente il minimo per tenere indietro lo Stato islamico, dice Mello al Foglio. Dà copertura dall’alto a distanza ravvicinata (quella che serve ai soldati a terra, per intenderci) soltanto sulla linea del fronte tenuta dai peshmerga curdi – e lì è stata davvero efficace – oppure durante operazioni specifiche (Baiji, Tikrit), oppure ancora quando gli insurgent sono sul punto di ottenere una grande vittoria – come a Baiji o a Ramadi, di recente. Il resto della campagna aerea di solito prevede il bombardamento delle retrovie dello Stato islamico, le infrastrutture di sostegno come le basi, i magazzini, le postazioni fisse, i veicoli ecc. ed è stato tremendamente efficace. Il problema è che la struttura di comando dello Stato islamico è decentralizzata e dispersa. Da quando sono cominciati i bombardamenti lo Stato islamico ha disperso i suoi reparti e i suoi veicoli e li tiene in concentrazioni molto basse, le sue forze si ammassano soltanto per compiere gli attacchi più grandi ma operano anche e di frequente in autonomia. Questa cosa è estremamente difficile da battere con il tipo di campagna aerea che l’America conduce in Iraq. Il risultato è che a dispetto di migliaia di bombardamenti, lo Stato islamico ha ancora un gran ritmo operativo e può radunare i suoi uomini per grandi attacchi come alla raffineria di Baiji e a Ramadi.

 

Tornando al paragone con la famosa guerra nella boscaglia in Rhodesia, contro l’insurgency locale. In particolare a un concetto militare chiamato “Fireforce”. Cos’è? perché era così efficace? Potrebbe essere applicato anche oggi in Iraq? E se sì, allora perché gli americani restano attaccati a questo loro solito modo di condurre una campagna aerea?

 

Il concetto di “Fireforce” era una tattica sviluppata durante la guerra dai rhodesiani come centro della loro campagna di counterinsurgency. La Fireforce prevedeva l’inserzione rapida di squadre di commando a bordo di elicotteri (di solito il Sas rhodesiano, la fanteria leggera o i fucilieri africani della Rhodesia) appoggiate da elicotteri cannoniera (irti di ogni tipo di armamento) e da aerei leggeri da attacco per circondare e distruggere gruppi di insurgent. In un tipico raid in stile Fireforce, le forze speciali erano inserite con la copertura degli aerei come gruppi d’arresto per sbarrare la strada ai guerriglieri in fuga mentre le cannoniere volanti e gli aerei attaccavano ed eliminavano il resto dei guerriglieri dall’alto. Le Fireforce erano chiamate da unità locali – di solito i “Selous Scout”, uomini che operavano in clandestinità nella boscaglia, oppure da unità territoriali – ed erano stanziate in aeroporti militari molto avanzati, quasi in territorio nemico. A ogni Fireforce era assegnata una zona d’operazioni. Si capisce che questo concetto di Fireforce può essere applicato in molti modi in Iraq, dove di solito i guerriglieri in Iraq operano in spazi aperti in bande che hanno tra i 15 e i 35 uomini che all’incirca sono le dimensioni dei vecchi plotoni dell’esercito iracheno oppure le dimensioni medie di una cellula della guerriglia nel periodo tra il 2003 e il 2011, quando c’erano gli americani. In più, in generale, di solito hanno tra i due e i cinque veicoli, come pickup o mezzi blindati. Questi gruppi sono estremamente vulnerabili agli assalti dall’alto delle forze speciali aiutate da appoggio aereo ravvicinato. E anche le infrastrutture dello Stato islamico – basi, campi d’addestramento, centri di governo ecc. – sono estremamente vulnerabili a questo tipo di raid in stile Fireforce.


Quattro fotografie prese da un video dello Stato islamico che mostrano i combattimenti tra guerriglieri estremisti e forze del governo vicino alla raffineria di Baiji, la più grande dell’Iraq


E invece, in Iraq… Le operazioni irachene per ripulire un’area dallo Stato islamico sono di solito assalti frontali goffi e lenti, che permettono ai guerriglieri di indietreggiare infliggendo ai soldati il massimo delle perdite, e di lanciare contrattacchi diversivi in altre zone e in generale di mantenere l’iniziativa. Quando non sono impegnate in queste operazioni su vasta scala, le unità irachene ripiegano in modalità “esercito da posti di blocco”. Invece, spiega Mello, la pressione senza soste che i rhodesiani applicavano al nemico con i raid Fireforce lo teneva in uno stato di caccia all’uomo permanente, disorientato, incalzato e incapace di radunarsi per attaccare o controllare il territorio. Non che fosse tutto facile: la Fireforce dipendeva da una rete Humint estesa (Humint: è l’intelligence raccolta grazie agli informatori locali, che dicono ai soldati chi fa cosa), da posti d’osservazione avanzati e dalle squadre dei Selous Scout che vagavano per mesi nella savana – precisamente il tipo di intelligence che l’America ha gettato nel cestino della spazzatura, per quanto riguarda l’Iraq, dopo il 2011.

 

Mello dice che una ragione per questo atteggiamento è che c’entra anche il fattore “rischio tenuto volutamente basso” per i soldati. Gli Stati Uniti stanno essenzialmente facendo una campagna aerea che è l’equivalente della “strategia dei super Fob” del generale Casey nel 2005 (nota: nel 2005 il generale Casey ritirò le truppe americane in poche grandi basi con ogni comodità e isolate dal paese vero, appunto le Fob, Forward Operative Base, da cui uscivano soltanto per fare pattuglie su strade prevedibili con lunghi convogli di mezzi, nella speranza che intanto gli iracheni prendessero gradualmente il posto dei soldati americani e nella speranza, anche, di limitare le perdite: non funzionò, i gruppi della guerriglia si mangiarono via intere aree dell’Iraq e le perdite aumentarono). Oggi quasi tutte le forze aeree americane sono stanziate fuori dall’Iraq in grandi basi nei paesi del Golfo. Gli Stati Uniti fanno decollare i bombardieri B-1 dalla base aerea di al Udeid in Qatar come se stessero ancora bombardando il regime di Saddam negli anni Novanta, quando invece oggi hanno davanti un nemico completamente diverso. Inoltre, sebbene il grosso della potenza di fuoco del Comando centrale americano sia adesso concentrata in Iraq, la maggior parte delle risorse americane per l’intelligence aerea è ancora concentrata in Afghanistan. L’errore più grande è che gli americani non stanno trattando questa campagna aerea come parte di una campagna di counterinsurgency. Invece che mandare in campo droni, elicotteri e aerei per attacchi al suolo in aeroporti sul fronte, e inviare squadre di osservatori assieme alle truppe irachene al suolo per segnalare da vicino i bersagli, e schierare le truppe speciali nel paese, gli Stati Uniti hanno sposato questo comodo approccio a distanza. E’ la versione aerea delle truppe americane che nel 2005 mangiavano gelati in quelle grandi basi con l’aria condizionata prima di uscire per le solite missioni.

 

[**Video_box_2**]Mello ricorda che in Rhodesia operazioni di counterinsurgency come “Eland”, “Dingo” e “Miracle” furono efficaci e letali. Le forze speciali partivano con piccoli gruppi di veicoli, conciati in modo da sembrare guerriglieri, guadavano fiumi, in alcuni casi attraversavano confini e poi facevano raid contro i campi d’addestramento e le basi della guerriglia. In alcuni casi erano scambiati per guerriglieri e quindi lasciati fare fino al momento in cui non aprivano il fuoco, quando ormai era troppo tardi. L’operazione “Eland”, un raid dei Selous Scout contro il campo Nyadzonya in Mozambico, nell’ottobre 1976, ottenne una cosiddetta “kill ratio” (la proporzione fra perdite subìte e perdite inflitte) di quattro feriti contro oltre mille guerriglieri uccisi. L’operazione “Dingo” – probabilmente l’operazione più famosa nella guerra – fu un attacco di tipo Fireforce contro un complesso di campi di 25 chilometri quadrati sempre in Mozambico, e ottenne una kill ratio di due morti e sei feriti contro tremila guerriglieri uccisi. I rhodesiani erano all’epoca, assieme agli israeliani, il miglior piccolo esercito dell’epoca, dice Mello, perché erano un corpo di soldati molto professionali e altamente addestrati, avevano una gran conoscenza della savana e sapevano come viverci, e avevano anche la determinazione di chi ha le spalle al muro e quindi è costretto a essere aggressivo e audace. Inoltre, sfruttavano i punti deboli della guerriglia – poco addestramento e una generale mancanza di preparazione. Il risultato fu quella serie di raid devastanti contro le retrovie dei guerriglieri.

 

Gli americani possono fare oggi in Iraq quello che i Selous Scout facevano in Rhodesia negli anni Settanta?

 

I Selous Scout erano un’unità con due specialità. All’inizio il loro ruolo era soprattutto raccogliere intelligence, fare ricognizioni a lungo raggio e operazioni di finta guerriglia in cui gli operatori bianchi vivevano nella savana anche per mesi per infiltrare le bande della guerriglia e ucciderle dall’interno o chiamando i raid Fireforce, spiegati qui sopra. Quando poi la guerra in Rhodesia divenne più intensa, alla fine degli anni Settanta, i Selous Scout furono spesso mandati assieme alle altre truppe scelte nelle operazioni Fireforce, in quei raid oltreconfine e in missioni di inseguimento. In quel loro primo ruolo i Selous Scout oggi avrebbero un ruolo limitato nello scenario iracheno – la loro forza era che combattevano in casa, sapevano muoversi nella boscaglia, parlavano la lingua ecc. Gli americani sono tradizionalmente pessimi, con rare eccezioni, in questo tipo di operazioni e lavoro sul campo. Tuttavia questo concetto potrebbe essere potenzialmente applicato in Iraq con squadre miste di forze speciali americane e gruppi locali di iracheni, in aree come la regione di Anbar. Agli americani farebbe bene adottare qualcuna delle specialità dei Selous Scout. Gli Scout erano un mix di soldati bianchi e neri che stavano assieme nella stessa unità per anni. Giravano nascosti nella boscaglia con un appoggio esterno minimo per mesi. Sono un possibile modello, che vale la pena studiare, per integrare le forze speciali americane, quelle irachene con i Sahwat (che sono i sunniti che si sono ribellati allo Stato islamico, il nome vuol dire “risveglio” in arabo) e le milizie sciite. Però la lezione più grande che viene dagli Scout e può essere applicata oggi in Iraq ha a che fare con l’atteggiamento mentale – che permetteva di fare operazioni di counterinsurgency in profondità in territorio ostile con risorse estremamente limitate.


Una pattuglia dei Selous Scout in Rhodesia negli anni Settanta. Durante la guerra passavano mesi nella boscaglia a raccogliere informazioni sui guerriglieri africani


Ramadi, la capitale della regione di Anbar, che è la regione considerata più pericolosa, a ovest della capitale: rischia di cadere, come è già accaduto a Mosul? Oppure è il punto di partenza della sconfitta dello Stato islamico? Per Alexandre Mello la verità sta nel mezzo. Ramadi è a rischio di cadere fin dal gennaio 2014. Il pericolo più grande è arrivato un mese fa, quando lo Stato islamico ha conquistato alcuni pezzi del centro e ha minacciato di prendere il compound che ospita il consiglio provinciale, ma non è riuscito a tagliare la linea di rifornimento delle forze irachene che va verso est, verso la base di Habbaniya. A dispetto del collasso della polizia locale, i veterani delle forze speciali irachene sono riusciti a respingere lo Stato islamico abbastanza a lungo per permettere l’arrivo dei rinforzi e dei bombardamenti della Coalizione. Fino a quando il governo iracheno tiene la “Divisione d’oro” in città, e aperte le strade verso Habbaniyah e verso la capitale Baghdad, Ramadi non cadrà. Proprio prima dell’ultima offensiva della guerriglia contro Ramadi, il primo ministro Abadi ha dichiarato con tanta enfasi che l’operazione per ripulire la regione di Anbar è cominciata – questa è una fantasia. Qualsiasi operazione per “ripulire” Anbar in realtà sarà limitata a mettere in sicurezza Ramadi e la sua periferia, e forse una campagna su larga scala per riprendere Falluja. Ripulire tutta Anbar è un’illusione. Probabilmente non tornerà mai sotto il controllo del governo federale iracheno.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)