Obama bastona la sinistra non allineata sul libero scambio
New York. Per Barack Obama il passaggio dell’accordo di libero scambio dell’area pacifica (Tpp) è un traguardo politico non negoziabile, e dato che l’opposizione, in questo caso, arriva dai banchi del suo partito, il presidente ha messo il dito nella disputa fratricida fra democratici, dove la corrente della crescita è in rotta di collisione con quella della protezione del lavoro e della lotta senza quartiere alle diseguaglianze. Nemmeno la fazione più liberista, che da mesi negozia con i repubblicani una soluzione convergente, sembra in grado di sbloccare l’impasse in cui è finito l’accordo, e ieri i senatori di sinistra allineati a Obama hanno detto che non voteranno il trasferimento de facto di poteri al presidente, il cosiddetto “fast-track”, procedura che permette al Congresso di approvare o bocciare il testo finale della legge senza però fare emendamenti. Il Gop, dicono, non offre garanzie sufficienti per andare avanti su questa strada.
Con una scrollata di spalle, il portavoce di Obama ha detto che non è inusuale per il Senato trovare lungo la via “snafu procedurali”. Snafu è una sigla militare coniata nei momenti più caotici della Seconda guerra mondiale, quando i comandanti americani in Europa riferivano ai superiori sempre lo stesso messaggio: “Situation normal, all fucked up”; un modo di dire piuttosto sgargiante per il linguaggio protocollare della Casa Bianca. E’ un altro indizio dell’esaurirsi della pazienza di Obama sul tema. La vittima sacrificale che la Casa Bianca ha designato per questa disputa è Elizabeth Warren, senatrice antagonista e incubo ricorrente di Wall Street. Da una fabbrica della Nike Obama l’ha accusata di avere “assolutamente torto” quando sostiene che l’area di libero scambio potrebbe rendere vana la regolamentazione di Wall Street costruita dopo il collasso del sistema. L’idea di Warren è che un accordo fra dodici stati (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam) creerà un ambiente legale neutrale e indipendente rispetto alle legislazioni approvate nei singoli stati, offrendo un rifugio nelle acque internazionali del business per chi vuole tornare alle sbrigliatezze dell’era pre-crisi. Il Tpp, del resto, riguarderebbe un terzo del mercato commerciale globale, circa il 40 per cento del pil mondiale, una copertura piuttosto ampia sotto la quale trovare rifugio. La replica non si è fatta attendere, e Warren ha esposto questioni di merito e di metodo: innanzitutto il dispositivo legale che aggira le regolamentazioni finanziarie, che fa il paio con la richiesta alla Casa Bianca di imporre norme sul lavoro più eque come precondizione per tutti i paesi coinvolti nel negoziato.
[**Video_box_2**] In seconda battuta, Warren critica l’alone di mistero che circola attorno al testo. “Se il presidente è tanto certo che si tratti di un ottimo accordo, dovrebbe desecretarlo e lasciare che la gente lo veda, prima di chiedere al Congresso di approvarlo”. Il livello di segretezza al quale il testo del trattato – apparentemente diviso in trenta capitoli – è sottoposto, si è trasformato in una linea d’attacco efficace contro Obama, presidente che prometteva trasparenza totale e ha restituito più che altro opacità e cortine fumogene. Soltanto i membri del Congresso possono vedere il testo dopo una complicata procedura di accreditamento, ma non possono prendere appunti né comunicare informazioni sul trattato al loro staff. La Casa Bianca ha imposto queste regole per non avvantaggiare con informazioni riservate gli altri paesi che partecipano al negoziato, ma il modo oscuro con cui la faccenda è gestita ha gettato nuovi strati di sospetto su avversari e alleati del presidente che già storcevano il naso nel merito del trattato. O almeno su quel che ne sappiamo.
Dalle piazze ai palazzi