Abu Alaa al Afari

Prove di decapitazione dello Stato islamico

Daniele Raineri

Dall’Iraq arriva la notizia (da prendere con le molle) che il terrorista più alto in grado dopo Al Baghdadi, ora paralizzato, è finito anche lui sotto le bombe. Il piano dell’accerchiamento e quel segnale sulle fughe di notizie.

Roma. Come fonte non è granché attendibile perché in passato si è già lanciato in annunci clamorosi poi smentiti: ieri il ministero della Difesa iracheno ha detto che un raid aereo americano ha ucciso Abu Alaa al Afari, il leader al primo o al secondo posto nella catena di comando dello Stato islamico. Al Afari è il nome di battaglia di Abdul Rahman al Qaduli, un ex insegnante di Fisica passato al jihad decenni fa, alcune fonti dicono nel 1988 assieme ad al Qaida (che oggi è un gruppo rivale dello Stato islamico).  Al Afari di recente ha preso il posto del capo supremo, Abu Bakr al Baghdadi, che secondo una notizia del mese scorso e ancora da confermare è fuori combattimento a causa di un raid aereo che a marzo lo ha lasciato ferito gravemente alla schiena – lo hanno raccontato il giornalista Martin Chulov sul Guardian e un esperto iracheno assai citato, Hisham al Hashimi, uno dei pochi analisti sul campo ad avere conosciuto di persona Al Baghdadi (non di recente ovviamente: in passato).
Il portavoce del ministro della Difesa irachena, il generale Tahsin Ibrahim, ha quindi annunciato che Al Afari è stato colpito lunedì in una moschea vicino a Tal Afar, la città a circa un’ora di macchina a ovest di Mosul in cui è nato e in cui talvolta predicava. I “talafariyin”, come sono conosciuti gli abitanti di Tal Afar, sono considerati fra gli uomini più spietati e determinati dello Stato islamico fin dagli anni della guerra contro gli americani, perché uniscono alla carica ideologica anche una forte dose di revanscismo locale (si sono sentiti molto maltrattati dal governo negli anni passati). Si raccontano storie cruente su di loro, per esempio che imbottissero con l’esplosivo i cadaveri dei soldati per uccidere chi poi arrivava a recuperarli.

 

Al Afari, si dice, era impegnato in una serie di consultazioni interne sulla futura leadership dello Stato islamico – ora vacante proprio nel mezzo di una fase convulsa della guerra, con più fronti aperti, da Anbar, in Iraq, a Deir Ezzor, nell’est della Siria, ad Aleppo, nel nord siriano. La scorsa settimana il dipartimento di stato americano ha messo una taglia da sette milioni di dollari su Al Afari (più alta di quella di altri leader più conosciuti ai media), segno che anche l’Amministrazione americana ha cominciato da poco a considerarlo un capo di primissimo piano (per esempio il ceceno Omar al Shishani, tra i leader militari del gruppo, con quella barba rossiccia che lo fa spiccare nelle foto, ha sulla sua testa una taglia da cinque milioni di dollari; per Al Baghdadi è di dieci milioni). Al Afari vanta all’interno del gruppo alcuni titoli che possono essere considerati “nobiliari”: è stato vice di Abu Musab al Zarqawi, il Fondatore che ha uno status quasi leggendario tra i jihadisti; e nel 2010, quando arrivò il momento di sostituire il capo dello Stato islamico ucciso in un raid, fu Osama bin Laden a proporre il suo nome – all’epoca Al Afari era conosciuto come “Haji Iman”. Vinse invece Al Baghdadi, raccontano alcune indiscrezioni informate, perché era appoggiato dalla fazione irachena degli ex membri del partito Baath di Saddam Hussein passati allo Stato islamico dopo la fine del rais iracheno.

 

[**Video_box_2**]Il governo iracheno, come si diceva, non ha precedenti illustri di attendibilità, perché nei mesi recenti ha già annunciato due volte la morte di Al Baghdadi e poi è stato smentito dai messaggi audio del capo dello Stato islamico. Però in questo caso la notizia appare più plausibile che nel passato per due motivi. Il primo è che la segretezza che di solito avvolge lo Stato islamico sta cadendo, qui è la. Al Afari è stato visto predicare nella moschea al Nuri di Mosul venerdì scorso, la stessa dove Al Baghdadi fece la sua prima apparizione pubblica dopo la proclamazione del Califfato. Anche per lui forse è stata una presentazione ufficiale. E ogni settimana ci sono nuovi rumors sui capi, prima Al Baghdadi ferito, poi l’ascesa di Al Afari, poi ancora la sua rivalità con un altro leader di spicco, Abu Ali al Anbari, un iracheno che comanda le operazioni militari in Siria, e con un altro leader, Abu Luqman, il siriano che comanda la città di Raqqa, seconda capitale dello Stato islamico dopo Mosul (per inciso: questo Abu Luqman sarebbe ancora in una prigione siriana se nel 2011 Bashar el Assad non lo avesse rimesso in libertà assieme a centinaia di altri jihadisti).  Insomma, una ridda di voci incontrollate (più la taglia fresca) che lasciano intuire qualche problema di tenuta. Il secondo motivo che aggiunge plausibilità: da giorni si parla di scontri a Mosul tra fazioni diverse dello Stato islamico e si dice che proprio la successione a Baghdadi sia il motivo scatenante. Potrebbe essere una spiegazione sul perché girano così tante informazioni. La città è però isolata e una conferma al cento per cento non è possibile, per ora.

 

Se l’esito del raid fosse confermato c’è da ricordare comunque che secondo alcuni studi di esperti la cosiddetta “strategia della decapitazione”, eliminare i capi, non sconfigge i gruppi jihadisti sul medio-lungo termine. Ieri c’è stato un secondo raid molto importante, passato però in secondo piano: uomini armati di pistole sono saliti a bordo di un autobus a Karachi, in Pakistan, e hanno ucciso 43 persone di fede ismailita. Sul posto l’esercito dice di avere trovato volantini dello Stato islamico, sarebbe la prima operazione del gruppo compiuta in Pakistan, terreno fertilissimo per il jihad.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)