La dottrina Rubio, profeta del nuovo Secolo Americano
New York. Tanto per chiarire il concetto, il primo pilastro della dottrina che Marco Rubio ha esposto mercoledì è “American Strength”, la forza americana, con le iniziali maiuscole. E’ la forza la via maestra per far sì che anche questo sia un “Secolo Americano”, pure quello maiuscolo. Nel discorso al Council on Foreign Relations di New York, il candidato ha ripetuto per nove volte questa idea, ne ha fatto un ritornello politico facile da ricordare, soprattutto sullo sfondo della debolezza dell’America di Barack Obama, presidente oscillante che preferisce la prudenza pragmatica del cabotaggio alla solidità di princìpi ispiratori. La dottrina Obama è un mostro biblico che tutti cercano e nessuno ha mai visto; la dottrina Rubio è un muscoloso saggio di moral clarity, una visione del mondo radicata nell’eccezionalismo americano ed espressa nella formula di Truman: l’America guida il mondo “non soltanto perché ha braccia superiori, ma perché ha scopi superiori”.
La promozione della democrazia, la difesa dei diritti umani, la protezione della sovranità degli alleati sono stati sostituiti, dice Rubio, “nel migliore dei casi dalla cautela, nel peggiore dalla volontà di tradire quei valori per negoziare con regimi oppressivi. Questo non è soltanto moralmente sbagliato, ma è contrario ai nostri interessi”. Spazio dunque all’ordine del mondo liberale che l’America esprime, anche se mantenerlo costa sacrifici in questi tempi di tagli di budget, per controllare “terra, mare, aria, ma anche l’etere e lo spazio: i campi di battaglia del 21esimo secolo”. Nel contesto dell’economia globale la primazia dell’America passa dalla protezione degli interessi economici americani, e qui è arrivata la bacchettata allo “smart power” di Hillary Clinton che invoca aperture e progresso e poi storce il naso di fronte a un accordo di libero scambio nell’area pacifica.
[**Video_box_2**]Rubio ha toccato tutti i punti che esaltano l’immaginario neoconservatore, inserendoli in un contesto credibile con un livello di familiarità con la politica estera che fin qui è mancato agli altri candidati, specialmente a Jeb Bush, che da ultimo è rimasto impantanato in una domanda (invero capziosa) su cosa avrebbe fatto in Iraq nel 2003 se avesse saputo l’esito del conflitto. Avrebbe fatto le stesse cose che ha fatto suo fratello, ha detto, salvo poi ritirare la risposta dicendo che non aveva capito la domanda. Rubio si è fatto trovare pronto: “Non avrei fatto lo stesso e nemmeno Bush avrebbe fatto lo stesso”. Ha preso posizioni inequivocabili sulla politica di Obama verso l’Iran e Cuba, compito facile, e ha duramente criticato Vladimir Putin, cosa già meno scontata vista la fascinazione di un pezzo della destra per il leader aggressivo e tradizionale. Tre anni fa, quando si parlava del nome di Rubio come possibile vice di Mitt Romney, il senatore aveva delineato la sua visione di politica estera in termini chiari ma non così aggressivi. Allora era soprattutto un idolo del Tea Party, movimento a forte carica isolazionista, mentre ora si riaffaccia come profeta della diaspora neocon. Del resto, lo ha ricordato, “il primo dovere del presidente non è quello di essere il ‘tassatore in capo’ o il ‘regolatore in capo’, ma il comandante in capo”.
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