In Asia il ping pong dei barconi non è finito per solidarietà
Bangkok. Nel sud-est asiatico è iniziata la stagione dei monsoni, ma il flusso dei migranti che attraversano il golfo del Bengala verso la Malesia e l’Indonesia continua. Monsoni ed esodi sono interconnessi. Quest’anno il monsone di sud-ovest pare attenuato, quindi il numero di barconi carichi di migranti è in aumento. Poi il mare e le piogge allagheranno “il paese delle maree”, le coste del Bangladesh e della Birmania, creando un ennesimo disastro che alimenterà il numero dei prossimi migranti. Nell’ultimo anno sono stati 88 mila, circa 25 mila negli ultimi mesi. Un migliaio sono spariti in mare. Altri mille sono morti di fame, sete, malattie, maltrattamenti. Circa ottomila sono disseminati al largo delle coste thai, malesiane e indonesiane. Per la maggior parte sono di etnia rohingya. Sono circa un milione, musulmani, stanziati nel nord del Rakhine, uno stato della Birmania sul golfo del Bengala. Dicono d’essere discendenti di mercanti arabi. Per il governo birmano sono bengalesi, immigrati illegalmente dal Bangladesh una cinquantina d’anni fa. In Birmania non sono riconosciuti come etnia, non hanno diritti. Dal 2011, quando la Birmania sembra aver imboccato la strada per la democrazia, la loro situazione è peggiorata. Con la possibilità di manifestare qualche forma di dissenso, la popolazione buddhista ha sfogato la sua ostilità nei confronti della minoranza musulmana, accusata di non volersi integrare. Il governo del presidente Thein Sein, dovendo gestire un delicato equilibrio con le oltre cento etnie del paese, non si oppone al cosiddetto “integralismo buddhista” che è uno dei pochi elementi comuni. Anche Aung San Suu Kyi non ha manifestato solidarietà nei confronti dei rohingya.
“In realtà molti di quelli che fuggono sono bengalesi che si fingono rohingya”, dice al Foglio un occidentale stabilito in Birmania. “Sperano di ottenere diritto d’asilo”. E’ un’illusione. Tutti cercano fortuna nei paesi islamici del sud-est asiatico, Malesia e Indonesia. Le loro speranze sono alimentate dai trafficanti che offrono un passaggio per pochi dollari o anche gratis. Pagheranno dopo. I loro casi spesso restano fuori dai radar. Ma, come per le calamità naturali, è stato l’orrore a focalizzare l’attenzione. L’orrore delle fosse comuni scoperte nelle foreste al confine tra Thailandia e Malesia, nella zona dei campi di transito, dove erano trattenuti i migranti finché le famiglie non pagavano (circa 2.000 dollari). Chi non riusciva a pagare era eliminato, lasciato morire, venduto sul mercato del sesso.
L’orrore ha innescato una reazione a catena. Il governo thai ha lanciato un’operazione di durissima repressione contro i trafficanti di uomini. Il generale Prayuth Chan-ocha, salito al potere con il colpo di stato del maggio scorso, deve dimostrare che l’esercito difende i diritti umani meglio del precedente governo. Privati delle basi d’appoggio e temendo l’arresto, i trafficanti hanno abbandonato in mare il carico umano. E’ così iniziato un “ping pong marittimo”: Thailandia, Malesia e Indonesia si rimbalzavano la responsabilità dei migranti. Mentre i barconi si trasformavano in bare galleggianti popolate da zombie che si facevano a pezzi per cibo e acqua.
Nel sud-est asiatico, però, le crisi seguono i ritmi delle tempeste: si scatenano e passano improvvise. Sino a pochi giorni fa sembrava che gli ottomila migranti in mare fossero destinati a morire. Ma mercoledì, dopo una riunione dei ministri degli Esteri, Malesia e Indonesia hanno annunciato che non respingeranno i boat people, a condizione che siano trasferiti o rimpatriati entro un anno. La Thailandia ha offerto assistenza in mare e la Birmania ha dichiarato che fornirà aiuti umanitari. Secondo molti osservatori la soluzione è stata determinata dalla pressione internazionale. La spiegazione più “sottile”, secondo la mentalità asiatica, è che l’Asean vuole dimostrarsi più coeso, efficiente e moralmente superiore rispetto all’Unione europea. Lo dimostrano molti commentatori locali: dipingono scenari mediterranei da “Apocalypse Now”.
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