Applausi in sinagoga e missili. Così Obama rassicura Israele
New York. La folla che ieri ha accolto Barack Obama in una delle più importanti sinagoghe di Washington non ha risparmiato gli applausi, soprattutto quando il presidente ha parlato dello stato palestinese, riaffermando che la politica dei due stati continua a essere la linea ufficiale degli Stati Uniti. Adam Israel è una vecchia congregazione che raduna l’élite ebraica della capitale americana, ha fama di essere un ricettacolo di conservatori, ma negli ultimi anni la linea politica di chi la frequenta si è spostata decisamente verso il centro.
L’occasione formale della visita era la celebrazione del mese dell’identità ebraica, festa di cui molti dei fedeli accorsi ieri non avevano mai sentito parlare, ma di fatto si tratta di un pezzo di una più ampia strategia politica per rassicurare Israele e riaffermare l’incrollabile alleanza in questi tempi turbolenti. I negoziati nucleari con l’Iran sono l’ovvio oggetto del contendere, montati sul piedistallo di una relazione da tempo avvelenata fra Obama e Netanyahu e dall’ulteriore spostamento a destra del primo ministro di Israele e del suo governo formato di recente. Quando Bibi ha detto che “non ci sarà uno stato palestinese” sotto il suo governo, la Casa Bianca ha reagito tenendo la linea, e ora passa alla fase del riavvicinamento. La visita di ieri è stata introdotta da un’intervista a Jeffrey Goldberg dell’Atlantic, l’interlocutore pubblico a cui Obama affida periodicamente le sue riflessioni su Israele, e a proposito dei negoziati con l’Iran Obama ha usato un modo inedito per tranquillizzare l’alleato preoccupato: “Fra vent’anni sarò ancora in giro, se Dio vuole. Se l’Iran avrà le armi nucleari, ci sarà scritto sopra il mio nome”. Come dire: non sto facendo un accordo di breve respiro ora soltanto per passare alla storia come quello che ha riaperto le relazioni con l’Iran, se l’accordo è il suicidio che alcuni dicono lo scopriremo, e la colpa ricadrà soltanto su di me. Insomma, Obama mostra la sua buona fede dicendo che non è nemmeno nel suo interesse siglare un accordo che permetterà all’Iran in futuro di ottenere la Bomba.
Per Chemi Shalev, editorialista del quotidiano Haaretz, il vero destinatario di questi messaggi è “innanzitutto la sua constituency di ebrei americani liberal”; è di questo elettorato istintivamente democratico, e tuttavia preoccupato, che ha bisogno per convincere i senatori del suo partito a non mettersi di traverso quando il Congresso sarà chiamato a votare l’eventuale accordo che dovrà essere siglato entro il 30 giugno. Obama deve essere sicuro che l’operazione non venga sabotata all’ultimo dai suoi alleati di Capitol Hill. L’altro lato della manovra di rassicurazione è una commessa militare da 1,9 miliardi di dollari, approvata qualche giorno fa dal Pentagono e dal dipartimento di stato. L’ordine non dovrebbe avere problemi a passare al vaglio del Senato, e l’elemento più importante dell’affare è la presenza di missili bunker-buster di ultima generazione, armi in grado di penetrare nelle installazioni nucleari sotterranee dell’Iran. La commessa non risolve certo le obiezioni israeliane ai negoziati, ma può alleviare il senso di preoccupazione dell’alleato.
[**Video_box_2**]Una nota ufficiale di Foggy Bottom dice che “gli Stati Uniti sono impegnati per la sicurezza di Israele, ed è fondamentale per l’interesse nazionale americano assistere Israele nello sviluppo e nel mantenimento di una capacità forte di autodifesa”. Capacità forte di cui Israele gode in formula esclusiva fra gli alleati americani dell’area. Negli ultimi mesi l’Arabia Saudita, altro alleato recalcitrante e nemico giurato dell’Iran, si è lamentata con la Casa Bianca di non avere forniture militari paragonabili a quelle che gli Stati Uniti concedono a Israele, e i funzionari di Riad hanno citato proprio la mancanza di missili bunker-buster, che non risolvono ma possono alleviare.