La diplomazia pol. corr. di Obama non concede asilo ai cristiani
New York. Julian Dobbs, vescovo di una delle quattro diocesi anglicane del nord America, stava perorando presso il dipartimento di stato americano la causa di un gruppo di cristiani assiri del nord dell’Iraq che tentano di fuggire dai loro persecutori, magari per trovare asilo in America, quando si è sentito dare questa risposta dall’ufficio per i migranti di Foggy Bottom: “Non c’è modo che i cristiani vengano sostenuti per via della loro affiliazione religiosa”. Il governo americano non riconosce l’affiliazione religiosa dei cristiani iracheni e siriani come motivazione sufficiente per concedere asilo, anche se ogni giorno dal medio oriente arrivano sanguinose testimonianze della persecuzione in odium fidei, mentre l’elemento sociale o etnico è soltanto un aspetto secondario. Da Erbil fino alle coste della Libia, da Garissa alla Siria, i cristiani vengono perseguitati per la loro fede, “anche più che nei primi secoli del cristianesimo”, come ha detto Papa Francesco, invitando a più riprese il mondo a non voltarsi dall’altra parte.
L’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda, spiega che i cristiani in Iraq “hanno sperimentato lungo i secoli molte difficoltà e persecuzioni, offrendo carovane di martiri, eppure il 2014 ci ha portato i peggiori atti di genocidio contro di noi nella nostra storia”. L’inaudita gravità della situazione ha portato a cambiare posizione molti leader cristiani che storicamente invitavano i fedeli a rimanere in medio oriente. Ora invece agevolano le procedure per le richieste di asilo e di visti speciali nei paesi occidentali, ma l’Amministrazione Obama non ha intenzione di concedere uno status speciale per i cristiani e le altre minoranze religiose perseguitate dallo Stato islamico e da altri gruppi della galassia del jihad. Probabilmente Washington teme di finire sotto lo stesso fuoco di fila di critiche che si è abbattuto qualche mese fa sul governo canadese, che in alcuni documenti riservati aveva sollevato la possibilità di dare la precedenza ai rifugiati cristiani dell’Iraq, riconoscendo una minaccia specifica. Dalle agenzie dell’Onu e da organizzazioni non governative è arrivata la protesta sulle presunte sporgenze discriminatorie della proposta, subito abbandonata. L’opinionista Kirsten Powers ha scritto che Obama “non sembra avere alcun interesse per le persecuzioni di massa dei cristiani in medio oriente o per lo sradicamento del cristianesimo nei luoghi in cui è nato”, e la denuncia del vescovo anglicano riduce l’affermazione al rango di eufemismo.
“I dati dicono che non soltanto all’interno dell’Amministrazione non c’è interesse per i cristiani che vivono sotto la minaccia del genocidio da parte dello Stato islamico, ma non c’è posto per loro qui. Punto”, scrive Faith McDonnell, direttrice dell’Institute on Religion and Democracy. Le regole del dipartimento di stato dicono che il rischio della persecuzione dei cristiani iracheni non è un elemento sufficiente per garantire richieste di asilo, e la questione non ha nulla a che fare con il costo dell’operazione sulle spalle del contribuente americano. Anche i cristiani sostenuti dai fondi di organizzazioni umanitarie vedono rifiutarsi le richieste d’asilo, mentre l’America accoglie con più facilità altre categorie di rifugiati. Dall’inizio dell’anno oltre quattromila somali hanno trovato asilo negli Stati Uniti, mentre il Sirian e Iraqi Refugee Program non fa distinzioni religiose nel vagliare le richieste, anche se in questo caso la differenza religiosa coincide con una differenza sostanziale sul piano del rischio per la popolazione. McDonnell sostiene che in questo modo l’America “potrebbe anche avere accolto a sua insaputa elementi dello Stato islamico” che si sono spacciati come rifugiati.
Il caso che spiega meglio di tutti l’ostilità della burocrazia governativa per i cristiani iracheni è quello di Diana Momeka, suora dell’ordine domenicano di Santa Caterina da Siena, invitata dal Congresso a dare una testimonianza sulla condizione dei cristiani in Iraq. Alcune settimane prima della partenza per Washington, Momeka ha ricevuto comunicazione che il dipartimento di stato aveva rifiutato la sua richiesta di un visto, perché “non è stata in grado di dimostrare che le sue attività negli Stati Uniti sono compatibili con il tipo di visto che ha richiesto”.
Nina Shea, direttrice del centro per la libertà religiosa dell’Hudson Institute, nell’occasione ha scritto: “Quelli che hanno bloccato suor Diana fuori da questo paese hanno agito coerentemente con il trend di silenzio dell’Amministrazione per quanto riguarda il profilo religioso dei cristiani. Nello stile omertoso tipico del governo americano, i cristiani perseguitati sono identificati soltanto come ‘cittadini egiziani’ o ‘gente kenyota’, ‘vittime innocenti’ oppure ‘iracheni innocenti’”.
[**Video_box_2**]Nessun riferimento all’unico motivo per cui cercano rifugio all’estero, cioè la loro fede. Voci come quella di Shea si sono levate in America in difesa del viaggio di Momeka su invito del Congresso, vicenda kafkiana sbrogliata con una repentina concessione del visto. I termini della richiesta non erano cambiati, era cambiato il clima circostante, che aveva fatto trasparire tutta l’assurdità della posizione di Foggy Bottom. Benché esemplificativo della mentalità che pervade l’Amministrazione, il caso non è tipico. Il medio oriente è pieno di cristiani che non vengono invitati a parlare al Congresso e per i quali non si scateneranno campagne di solidarietà ad hoc. Per loro Washington ha una politica burocratica che non fa distinzioni religiose, come se quello non fosse l’elemento centrale della loro fuga.