Quanto è dura fare il vice di Erdogan alle elezioni
Per il premier turco Ahmed Davutoglu, candidato alle elezioni politiche di domenica, la migliore speranza per esercitare vero potere di governo è paradossalmente che il suo partito, l’Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, deluda alle urne. Se Davutoglu salirà al potere con la maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento la prima riforma del nuovo governo, come previsto in un patto non scritto tra premier e presidente, sarà trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale e trasferire il potere esecutivo a Erdogan: di fatto, Davutoglu si troverebbe a svuotare di significato la carica appena conquistata. Al contrario, senza una maggioranza assoluta per l’Akp, Davutoglu sarebbe ugualmente nominato premier – l’Akp è di gran lunga il primo partito in tutti i sondaggi e l’ipotesi peggiore è quella di un governo di coalizione – ma senza i numeri per la riforma costituzionale avrebbe spazio per governare. Ma che Davutoglu non abbia alcuna tentazione per l’autoboicottaggio, e che il patto tra premier e presidente sia saldo, lo mostra bene la campagna elettorale che si è conclusa oggi, in cui la presenza di Davutoglu è stata sovrastata da quella di Erdogan, nei media e nelle piazze. I comizi, gli slogan e i discorsi hanno dato idea di come funzionano i rapporti di potere nella Turchia di oggi.
Secondo la Costituzione turca il presidente è una figura imparziale, e non dovrebbe intromettersi nelle vicende della politica, né fare campagna elettorale per un candidato. Ma Erdogan, con il trucco di non nominare mai il suo partito, ha condotto una campagna parallela a quella di Davutoglu, con comizi altamente coreografati in tutto il paese, in cui ha chiesto ai turchi di votare per un governo forte e per la riforma dello stato in senso presidenziale, in sostanza per l’Akp. Anche Davutoglu ha visitato nelle ultime settimane 72 delle 81 province della Turchia, ma le sue doti oratorie difficilmente hanno esaltato il pubblico, che si eccitava solo quando il premier faceva il nome di Erdogan: “Il cinquanta per cento dei turchi sostiene Erdogan, siamo pronti a morire per lui”, ha detto un elettore a Daniel Dombey del Financial Times durante un comizio, mostrando per il premier un entusiasmo di riflesso: “Se Erdogan sostiene Davutoglu, allora Davutoglu è ok per noi”.
“Non sono sovrastato dal presidente”, ha detto Davutoglu in un’intervista recente con Afp, ma dall’andamento della campagna elettorale è difficile credergli: il suo inno elettorale dice che Davutoglu va “a braccetto con il capitano”, e nei pochi comizi che presidente e premier hanno tenuto insieme il candidato, che in teoria dovrebbe essere il protagonista dell’evento, ha parlato al pubblico per pochi minuti, per lo più per introdurre il discorso infiammato del presidente.
[**Video_box_2**]Davutoglu, 56 anni, è considerato da tutti un “bookworm”, un topo di biblioteca, un professore di Relazioni internazionali famoso per la sua teoria neo ottomana, secondo cui la Turchia deve recuperare l’antico status di potenza regionale, e per il suo motto “zero problemi con i vicini”. Erdogan lo ha nominato nel 2002 prima consigliere per la politica estera e poi ministro degli Esteri, fino a che ad agosto non gli ha lasciato la carica di premier per correre alle elezioni presidenziali. I suoi risultati come ministro degli Esteri, inizialmente brillanti, sono diventati più opachi negli ultimi anni, l’Economist ha ironizzato in un articolo recente e ha scritto che il suo slogan si è trasformato da “zero problemi con i vicini” a “zero vicini senza problemi”. Ma Erdogan, che l’anno scorso ha dovuto lasciare la premiership a causa delle regole interne del suo partito, ha scelto Davutoglu come alleato fedele, per propiziare una staffetta simile a quella avvenuta in Russia tra Vladimir Putin e Dmitri Medvedev. La campagna elettorale turca, però, fa temere gli analisti che il rapporto tra Erdogan e Davutoglu possa essere ancora più sbilanciato di quello tra i due politici russi, con il premier che rischia di sparire davanti al carisma del presidente.
Per ottenere la facoltà di cambiare da solo la Costituzione, l’Akp deve vincere una maggioranza assoluta di 367 seggi al Parlamento di Ankara, o una maggioranza di 330 seggi per promuovere una riforma attraverso referendum. Queste elezioni però sono le più incerte degli ultimi dieci anni, e il partito di governo, che nel 2011 ha ottenuto circa il 50 per cento dei consensi, oggi è fermo nei sondaggi al 43 per cento, abbastanza per ottenere la maggioranza, ma forse non per governare da solo. Molto dipenderà dal partito curdo, l’Hdp, che dopo una campagna di forte rinnovamento promossa dal leader Selahattin Demirtas potrebbe superare l’altissima soglia di sbarramento del 10 per cento, e vincere i circa 50 seggi che mancano all’Akp per ottenere la maggioranza assoluta. Un successo dei curdi potrebbe costringere l’Akp a un governo di coalizione e bloccare la ambizioni di potere di Erdogan. E’ il risultato sperato da molti analisti e uomini d’affari, e invocato dai maggiori quotidiani economici internazionali, dal Financial Times all’Economist. Un governo di coalizione, non dominato da Erdogan, consentirebbe al debole, ma pragmatico Davutoglu di adottare politiche economiche più ortodosse, e alla Turchia di sfuggire al decisionismo umorale del suo presidente. Così per Davutoglu, che oggi punta alla maggioranza assoluta, un risultato opaco a queste elezioni potrebbe essere il miglior successo. Sempre che Erdogan non manovri per rimuoverlo nei prossimi mesi – in Turchia se ne parla già da tempo.
L'editoriale dell'elefantino