Un Bush in Europa
Milano. Jeb Bush è arrivato ieri mattina presto a Berlino, dandosi quasi il cambio con il detestato Barack Obama che, nella scenografia tutta prati e fiori della Baviera, aveva appena concluso un G7 molto sorridente e unitario (anche se ancora restano dubbi irrisolti sulla sigaretta che il presidente americano avrebbe fumato in assenza della moglie, inimmaginabile, e sulla birra non alcolica bevuta in compagnia di Angela Merkel). Bush ha deciso di girare l’Europa a pochi giorni dalla candidatura ufficiale alle presidenziali del 2016 – l’annuncio è previsto per la settimana prossima, il 15 giugno – e all’indomani di un rimpasto brutale del suo team elettorale, con l’obiettivo preciso di presentarsi, scrive il Wall Street Journal, come un leader della destra americana tutto leadership e isolamento di Vladimir Putin. Come molti suoi compagni di primarie repubblicane (la corsa è affollata), Jeb Bush usa da tempo toni duri nei confronti della Russia: ha definito il capo del Cremlino, ancora ieri sera a Berlino, “un pragmatico spietato” e ha chiesto un aumento delle truppe della Nato nell’est dell’Europa. La visita è iniziata in Germania – Bush ha parlato a una conferenza organizzata dalla Cdu, il partito della cancelliera Merkel – e continua in Polonia ed Estonia, a dimostrazione dell’attenzione dell’ex governatore della Florida per quegli stati che durante la guida obamiana si sono sentiti poco protetti dall’alleato americano. L’importanza della Nato, strategica oggi quanto lo era 70 anni fa, è il collante del tour: “Chi altro se non noi?” può garantire pace e sicurezza, ha ripetuto Bush ieri sera: “La nostra alleanza, la nostra solidarietà e le nostre azioni sono essenziali se vogliamo preservare i princìpi fondamentali del nostro ordine internazionale”.
La questione russa è, come si sa, molto delicata, non soltanto perché apre fratture dentro all’Europa che spesso da Washington non si colgono appieno, ma anche perché s’intreccia con la posizione adottata dai democratici dell’Amministrazione Obama, com’è sua natura tentennante, partita con un tentativo di “reset” e finita con un pacchetto di sanzioni tra i più aggressivi di sempre. Il team di politica estera di Jeb Bush – che coinvolge consiglieri del padre George H. e del fratello George W., già presidenti degli Stati Uniti con una visione del mondo invero molto diversa – è convinto che la strategia di Obama abbia reso Putin molto bellicoso ma non abbia garantito al contempo quella copertura politica (e militare) che gli alleati dell’est Europa si sarebbero aspettati dopo tanti anni di indefesso atlantismo. Jeb Bush vuole ripartire da questa insofferenza per restaurare un legame forte con l’Europa basato sulla sicurezza e sulla difesa dei valori liberali dell’occidente, che passa naturalmente anche attraverso il trattato di libero scambio che tanto divide il Vecchio continente. Rispetto alla Russia, Bush ha fatto una distinzione tra “il popolo russo e i suoi leader corrotti”, il primo va difeso e i secondi vanno combattuti, quando diventano aggressivi, non con reazioni sproporzionate, ma “scoraggiando” fin dall’inizio quei comportamenti che finiscono per limitare la libertà dei popoli.
Come ha scritto Politico, la difficoltà maggiore di Jeb Bush in questo suo viaggio sarà quella di combattere i fantasmi di suo fratello e della guerra in Iraq in paesi che non hanno la stessa sensibilità né nei confronti del passato né del presente. La popolarità di George W. Bush in Germania era stata stimata, nel 2008, a fine mandato, pari al quattro per cento (era un sondaggio di Pew): il disagio transatlantico si era poi appianato con quelle duecentomila e più persone che accolsero, festose e accaldate, Barack Obama a Berlino, il leader da colpo di fulmine, antidoto perfetto agli anni bushiani (si sarebbero poi pentiti di quell’amore preventivo e scomposto). Di recente, Jeb Bush non è uscito brillantemente dalle domande che gli sono state rivolte sulla guerra in Iraq voluta dal fratello: non può smarcarsi da quella campagna, ma allo stesso tempo per sostenerla oggi ci vuole una determinazione che a Jeb forse manca. Ma il pubblico tedesco non è disposto ad accettare divagazioni su una guerra che ha osteggiato in piazza e nei palazzi, come ha registrato il New York Times andando a intervistare un po’ di persone a Berlino e restituendo l’immagine di perfetto scetticismo che aleggia tra i tedeschi. Se proprio bisogna affidarsi al sentimento della Germania – gli europei tendono spesso a dimenticare che non sono loro a votare il presidente degli Stati Uniti – Jeb Bush farebbe meglio a riesumare la strategia politica del padre, quel George H. che a Berlino è molto popolare (citato ieri sera, ha garantito un bell’applauso), ma potrebbe non essere sufficiente, come scrive Max Fisher su Vox in un articolo decisamente antipatizzante: soltanto il 7 per cento dei tedeschi vede Jeb Bush in modo positivo, dice un sondaggio YouGov. Nelle altre tappe del viaggio, tra Polonia ed Estonia, il clima è più conciliante, perché questa è quella che un altro tipo piuttosto detestato come l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld definiva la “nuova Europa”: il fronte est del nostro continente doveva essere ben protetto, secondo la corrente di pensiero allora dominante, e gli scudi missilistici che poi Obama avrebbe sminuito servivano per proteggersi dall’Iran, certo, ma anche se necessario dalla belligeranza russa.
Jeb Bush si trova a dover definire, a pochi giorni dalla probabile candidatura, una strategia di politica estera che pare ancora vaga, ma che si sostanzia in alcune certezze: ci sarà collaborazione con gli alleati che condividono gli stessi valori degli Stati Uniti, soprattutto con la Germania ormai diventata così strategica (e la sua austerità è stata molto lodata da Bush), l’America di Jeb non vorrà ritirarsi dal mondo, e Putin deve stare attento, tutte le opzioni sono sul tavolo, anche quella di inviare materiale militare difensivo all’Ucraina, cosa che né Obama né Merkel si sono mai sognati di prendere in considerazione.
L'editoriale del direttore