Il capo dei diritti umani dell'Onu va in Arabia Saudita a lezione di libertà
Roma. La Corte suprema saudita ha dato via libera: mille frustate e dieci anni di prigione per il blogger liberale Raif Badawi, reo di aver “offeso l’islam”. Soltanto la monarchia può salvarlo. A gennaio, mentre l’ambasciatore saudita sfilava a Parigi dopo la strage di Charlie Hebdo, Badawi aveva ricevuto le prime cinquanta frustate, dopo essere stato trascinato in catene davanti a una moschea. Una scena non dissimile da quelle cui si assiste sotto lo Stato islamico in Iraq e Siria e che fanno alzare qualche, non troppe, sopracciglia alla comunità internazionale. Nelle stesse ore in cui la medievale giustizia saudita procedeva verso la punizione dell’empio blogger, una fitta delegazione di burocrati delle Nazioni Unite atterrava a Gedda per promuovere una conferenza internazionale sulla libertà religiosa. No, non è uno scherzo.
A guidare i felloni del Palazzo di vetro c’era Joachim Rücker in persona, il presidente del Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fotografato sorridente al fianco dei custodi dell’islam wahabita con la tonaca bianca. Furiose le organizzazioni che di diritti umani si occupano davvero, come lo Un Watch che per bocca del suo direttore Hillel Neuer dice: “E’ già abbastanza che la monarchia oppressiva e fondamentalista saudita sia eletta nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Ma per gli ufficiali dell’Onu visitare Gedda e sorridere mentre l’attivista dei diritti umani Raif Badawi langue in prigione per il crimine di dissenso religioso, sotto minaccia di frustate, significa gettare sale sulla ferita. E’ allucinante”. Il numero di condanne a morte nel 2015 in Arabia Saudita ha già superato quelle dell’anno precedente. Soltanto a maggio, 89 sono state le teste che hanno rotolato.
Neuer accusa il Consiglio dei diritti umani dell’Onu di “dare una falsa legittimità internazionale a un regime che decapita le persone sulla pubblica piazza, opprime le donne, i cristiani e gli omosessuali, che imprigiona blogger innocenti per aver sfidato l’islam wahabita”. Un regime, quello saudita, che è sicuramente un modello di “libertà religiosa”, visto che ha imposto il divieto di costruire chiese, dove un’insegnante che ha speso parole positive sul Nuovo Testamento è stata condannata a 750 frustate, dove non si può mostrare la croce o pregare in pubblico. E in cui alla Mecca ci sono le due famose uscite autostradali, una per i musulmani e una per i non musulmani. E dove la commissione per la Promozione della virtù ha persino suggerito il bando della lettera “X”, perché troppo simile a una croce. “Non salutare per primo un cristiano o un ebreo”, recita il libro di testo per gli studenti delle scuole superiori saudite. E ancora: “Non diventare amico dell’infedele a meno che l’obiettivo sia la sua conversione”. Perché, come sta scritto in Ibn Abbas, “gli ebrei sono scimmie, il popolo del Sabato; i cristiani sono maiali, gli infedeli della comunione di Gesù”. Ai bambini si insegna che “è permesso distruggere, bruciare e demolire i castelli degli infedeli”. E’ stato l’11 settembre, quando si scoprì che quindici dei diciannove attentatori kamikaze erano passati dalle scuole saudite, che ci ha fatto conoscere questo modello religioso che Nina Shea, a capo del Center for Religious Freedom, bolla come “di tipo nazista”.
Anche l’Amministrazione Obama ha mandato due inviati alla conferenza di Gedda. Si tratta dell’ambasciatore per la libertà religiosa, David Saperstein, e Arsalan Suleman, inviato all’Organizzazione per la cooperazione islamica. C’era anche Heiner Bielefeldt, inviato speciale delle Nazioni Unite per la libertà religiosa, noto studioso di Immanuel Kant, che deve aver visto applicazioni della sua ragion pratica anche nella frusta che farà sanguinare la schiena dell’infedele blogger.
A questo punto manca soltanto di invitare l’Arabia Saudita al Salone del Libro per intrattenere il colto pubblico torinese sull’illuminismo nel mondo arabo. Azionismo islamico.