Tattiche e annunci d'America
La battaglia incrociata tra Hillary e Jeb per reinventarsi la Dynasty
Milano. La pazienza è la chiave per capire questi due giorni di tuffi nel passato, una Clinton di qui, su un palco a forma di H e un blu elettrico ad animarlo, un altro Bush di là, l’aria mite del conservatore che può conquistare anche chi conservatore non è, le dinastie della politica americana che si affrontano di nuovo, appiccicando un 2016 sotto a brand consumati dal tempo. Ieri sera a Miami, il suo piccolo feudo, Jeb Bush, il figlio del primo presidente Bush, il fratello del secondo presidente Bush, ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali americane del prossimo anno, dopo mesi di “esplorazione” andati piuttosto male, perché creare attesa con un cognome così è pressoché impossibile – i sondaggi, per quel che valgono, segnalano una freddezza senza appello – ma la pazienza, appunto, è la chiave. Dana Bash della Cnn utilizza la metafora della tartaruga e della lepre, dove Jeb fa la tartaruga e vince, anche se oggi le chance sembrano così poche, e va bene essere pazienti, ma come si fa a rinnovare, ad assecondare lo spirito imperante della rottamazione e del cambiamento con un cognome così? L’ex governatore della Florida lo fa per il momento togliendo Bush dal logo – usa sempre lo stesso format, va detto, il punto esclamativo dopo il nome: cambia solo l’anno di riferimento, che come modernizzazione non pare così geniale – e stravolgendo il team elettorale, un altro sintomo che segnala disperazione, ma che in questo caso si colora di rosso sangue: il capo della campagna, il trentanovenne Danny Diaz, è noto per essere un mastino azzanna tutti, la tartaruga andrà pure lenta e paziente ma è ben armata.
Il messaggio per ora, come è consuetudine in questa primissima fase di campagna elettorale, è tutto rivolto all’interno del Partito repubblicano: Diaz ha mandato di colpire in ogni modo possibile – e l’uomo è capace di tutto – i rivali più accreditati, che sono Marco Rubio, il migliore al momento (e Bush sperava non si candidasse), e il castigasindacati del Wisconsin, Scott Walker. Jeb Bush ha raccolto molti soldi, potrebbe raggiungere 100 milioni di dollari entro la fine di giugno, il “suo” Super Pac (formalmente è vietato ogni coordinamento tra la campagna elettorale e i Pac o Super Pac legati al candidato) riceve grande copertura mediatica, ma l’establishment ancora è diviso sul suo conto, e il tentennamento perenne di Jeb sull’eredità che si porta addosso, soprattutto quella del fratello George W. e della guerra in Iraq, non lo hanno di certo aiutato. Tanti soldi non garantiscono la forza di un candidato, per quanto sono e saranno molto utili, e per ora Jeb cerca di utilizzare i suoi, di successi, quelli da governatore della Florida, tagli alle tasse ma sostegno alle classi più deboli, un conservatore ottimista che non dice solo no come fanno molti degli oltranzisti del suo partito, ma che punta a creare un paese forte, che torni ad avere quel ruolo di leadership nel mondo che gli spetta di natura. “Molti parlano, ma è ora di aggiustare le cose”, dice Jeb Bush, con un occhio ai competitors, puntando su quel che ha, sessanta e passa anni da buon amministratore. “Il motto operativo nella campagna è ‘pazienza’”, dice appunto Al Cardenas, alleato storico di Bush in Florida, “quando la gente inizierà a conoscerlo, le cose andranno meglio”.
Conoscerlo, già. E’ che sembra di conoscerlo da sempre Jeb, è che sembra candidato da sempre, Jeb, invece non è nemmeno un giorno che lo è, ed è lo stesso grande dilemma di Hillary, alla quale basta una “H” per essere riconoscibile, ma nulla è mai stato finora sufficiente per togliersi di dosso il clintonismo, o al limite per reinventarlo. La pazienza anche qui è di casa, si potrebbe dire che da quando è una Clinton Hillary ha coltivato la pazienza, e ora gode del lavoro fatto, evitando gli errori del passato, ma con la consapevolezza di chi ha già perso e sa che inevitabilità e retorica della dinastia sono le peggiori nemiche.
[**Video_box_2**]Nel suo primo discorso della campagna elettorale, sabato a Roosevelt Island, Hillary ha usato tutta l’ironia di cui è capace, i suoi capelli che non possono ingrigire perché sono tinti da sempre, la sua età non proprio da rottamazione (ha 67 anni) – “non sarò il candidato più giovane di questa corsa, ma sarò la più giovane presidente donna della storia americana” – che è già diventata pop, se si contano gli articoli sui giornali che celebrano il gran revival delle nonnine. Soprattutto Hillary ha usato tutti i temi e i toni cari alla sinistra più di sinistra, gli attacchi alla finanza e al big business, l’occhieggiare (innaturale) ai democratici al Congresso che hanno votato contro il presidente Barack Obama sul libero mercato, lei che da segretario di stato ha fatto dell’apertura al mondo la sua arma più efficace. Hillary ha parlato così per mettere a tacere tutto il baccano che c’è in quell’area più radicale, che la dipinge come la centrista che ama corteggiare più i ricchi che i poveri (il premio Nobel Paul Krugman, che è uno dei più rumorosi, ieri festeggiava giulivo nella sua column sul New York Times: si vince solo quando si è molto liberal). Wall Street chiede alla signora Clinton di non cadere nella trappola del progressismo che disprezza la ricchezza, lei risponde con un programma tutto middle class e interventismo statale, che sa di tattica come tutto quel che riguarda Hillary, ma che serve per riempire gli spazi, smarcarsi dalla presidenza Obama – arrivare dopo otto anni di Casa Bianca democratica è impresa molto ardua – e allo stesso tempo smarcarsi dal cognome, che lei usa poco da tempo perché ormai non ne ha più bisogno, ma in questo “ormai” c’è tutta la sua debolezza. Come si reinventa un brand così, dopo tutto questo tempo? Con la pazienza, suggeriscono dall’altra parte della barricata dinastica, ma la formula è ancora da affinare, di qui e di là, per scongiurare quell’insofferenza molto americana che poi a un certo punto arriverà, quando e se davvero sarà sfida tra una Clinton e un Bush, ventiquattro anni dopo la prima volta. Le preoccupazioni, per quanto nell’istantanea di questo momento possa sembrare strano, si moltiplicano più nel campo democratico che in quello repubblicano, forse perché qui si litiga da sempre sul clintonismo. Tra i guru e i consiglieri del partito circola un mantra che suona così: “The wrong Clinton and the right Bush”. Lei è il Clinton sbagliato, mentre i repubblicani, al terzo giro, hanno finalmente il Bush giusto.
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