Bianco e nero
Roma. Per non lasciare dubbi a chi potesse averne quanto alla centralità del fattore “razza” negli Stati Uniti e alla necessità di un confronto su questo fondante fattore socioculturale, il massacro della chiesa africana metodista episcopale Emanuel, a Charleston, è andato in scena poco dopo che Hillary Clinton aveva lasciato la città per una visita elettorale e alla vigilia dell’arrivo del suo più serio sfidante, il repubblicano Jeb Bush. Dopo le parole pronunciate ai futuri elettori dall’una, e prima di quelle dell’altro candidato, alle 9 di sera di mercoledì, un ragazzo bianco di circa 21 anni, capelli biondi a caschetto – non il look dell’estremista al climax del suo delirio, ma quello “clean shaven” del figlio normale di una famiglia normale – è entrato nella vecchia chiesa nel centro della cittadina turistica, mentre era in corso una riunione di preghiera. Gregory Mullen, capo della polizia di Charleston, partendo dal presupposto che quello è un luogo frequentato quasi esclusivamente dalla comunità nera, ha classificato l’evento come un “attacco di odio razziale” e ha confessato di vivere il più brutto giorno della sua carriera.
Presto sono state diffuse le foto, riprese dalle telecamere di sorveglianza che permettono di identificare sia lo sparatore sia la sua auto e si è aperta la caccia all’uomo. I fatti sono avvenuti a 10 chilometri dal luogo nel quale lo scorso aprile un poliziotto bianco ha esploso otto colpi alle spalle di Walter Scott, un afroamericano colpevole di non immobilizzarsi al suo ordine. Il reverendo Clementa Pinckney, membro del Senato dello stato, ucciso nella sparatoria, era stato tra i membri più attivi della comunità dopo l’uccisione di Scott: aveva organizzato una preghiera con la partecipazione di Al Sharpton e presentato al Senato il progetto, poi divenuto legge, che richiede ai poliziotti di indossare telecamere mobili. Mentre la mobilitazione attorno alla chiesa comincia a montare, l’Fbi ha assunto il controllo delle indagini, dal momento che anche il sindaco di Charleston ha classificato la strage come un crimine razziale.
[**Video_box_2**]I massacri di gruppo sono tornati all’ordine del giorno nell’America d’oggi. Nell’ultimo anno, in 283 episodi 4 o più persone sono state ferite o uccise. La motivazione razziale ha ripreso a essere il principale fattore scatenante e ha riacceso l’attivismo che contesta le tattiche discriminatorie delle polizie locali. Ma è la tempistica di questo evento a renderlo più tragicamente significativo. Nella corsa del 2008 Barack Obama vinse la South Carolina col sostegno di supporter multirazziali e con lo slogan “La Razza Non Conta”. Escluso che questo possa ripetersi nel 2016. Il fronteggiamento sarà duro, le scelte obbligate, ai candidati saranno chieste prese di posizione e non equilibrismi: pro o contro, quanto a controllo della circolazione delle armi, condotta delle forze di polizia, ruolo delle istituzioni nelle procedure di riconciliazione e di equiparazione. Il presidente nero che ha provato a rimettere la questione sul tavolo del dibattito nazionale pare passato invano, perché è ufficiale che qui il razzismo non è morto. Esiste un problema bianco e un problema nero. Ed esiste un problema di armi. L’America post razziale è un’illusione.
I vecchi problemi, inaspriti dalle nuove tragedie, diventano argomenti di primo piano per i candidati alla Casa Bianca. Questa volta non è solo l’economia, bellezza. Sono anche la decenza, la dignità, le strategie di intervento. Presto Hillary, Jeb e gli altri si riaffacceranno da queste parti. Se vogliono vincere questo stato, devono schierarsi in modo limpido, dicendo cosa pensano e cosa vogliono fare. Non possono sperare di arrivare allo Studio ovale solo dando prova d’essere consumati praticanti dello slalom tra le croci del problema più tragico della nazione.