Travaglismo do Brasil
Roma. Sono stati arrestati i presidenti delle due principali aziende di costruzioni del Brasile: Marcelo Odebrecht, della impresa Odebrecht, e Otávio Marques de Azevedo, della Andrade Gutierrez, sono sospettati di aver pagato a ex direttori di Petrobras, l’azienda statale del petrolio, tangenti del 3 per cento del valore dei lavori avuti in appalto (affari da 5 miliardi di euro nel caso di Odebrecht e 2 miliardi nel caso della Andrade Gutierrez). Entrambi gli imprenditori sono legati all’ex presidente Lula da Silva, probabile candidato del Partito dei lavoratori (Pt) alle presidenziali del 2018, unica carta del Pt per sperare nella vittoria. E Lula, rimasto muto nell’ultimo decennio ogni volta che scandali giudiziari hanno falciato i suoi più stretti collaboratori fino a sfiorarlo, protetto da numerosi “Primo Greganti” immolatisi per la causa, stavolta ha parlato. Ha sbraitato contro la presidente Dilma Rousseff, accusandola di assistere agli arresti in silenzio: ci vuole una reazione, una controffensiva. L’esecutivo deve prendere posizione contro l’invadenza dei giudici, ha detto, e invece “questo è un governo di muti”. Se parla Lula, vuol dire che l’allarme ha superato la soglia della sopravvivenza politica per il Pt.
I giudici più esposti nelle inchieste sulla corruzione del partito di governo sono acclamati dalla folla come popstar, abbracciati e benedetti per strada come fossero Caetano Veloso. Giornali e tv cavalcano l’onda e il grido “in galera subito!” rimbalza con gioia sui social. Cosa è successo? Perché il tintinnar di manette sembra diventato musica alle orecchie di un popolo gentile, culturalmente più incline all’indulgenza, alla risata magari amara, che alla fustigazione dei peccati altrui, anche se pubblici?
Il Pt, al potere dal 2003, è oggetto dal 2005 di inchieste su fondi neri e sistemi di sovrapprezzi negli appalti statali, talmente ben raccontate dai telegiornali con colpi di scena e tradimenti da essere seguite in tv come si segue la telenovela delle otto della sera. Prima c’è stato lo scandalo mensalão (mazzette mensili ai deputati alleati del primo governo del Pt 2003-2006) che ha condannato in via definitiva l’alta dirigenza del partito. Ora c’è l’operação Lava Jato, l’inchiesta sulla Tangentopoli nell’azienda pubblica del petrolio.
Le indagini sono in pieno corso e si è scatenato il tifo popolare per le delações premiadas, le delazioni premiate, le nostre lessicalmente meno schiette riduzioni di pena per chi collabora con la giustizia. La scritta CorruPTos trionfa su pareti e magliette. Gruppi nati in rete come Vem pra Rua (vieni in strada), Brasil livre o Revoltados Online organizzano via social network passeggiate per chiedere l’impeachment della presidente Dilma Rousseff al grido “Fora Pt”. Lei non è accusata di nulla, ma bisogna andarsi a leggere la Bbc Brasil per trovare qualcuno che dica “finora non ci sono nemmeno suggestioni nelle carte che possano accusare Dilma di qualche comportamento criminale” (Matthew Taylor, Brazil Institute, American University). E’ necessario comprare l’edizione brasiliana dello spagnolo País per vedere scritto che “lo stesso Lula è stato accusato dal principale informatore del caso sui sovrapprezzi in Petrobras di conoscere tutta la trama della storia. Ma non c’è nessuna prova”. Quel “Mas não há nenhuma prova” scolora nei giornali brasiliani, in tv scompare proprio.
Una notizia che dà l’idea del clima: il giudice Wagner Carvalho Lima, dello stato di San Paolo, in una sentenza ha citato l’avvenuta liberazione di nove imputati della operação Lava Jato come motivazione per dare la libertà provvisoria a venti persone rinchiuse nel Centro di detenzione preventiva accusate di reati vari, tra cui il riciclaggio di denaro. Le parole della sentenza riportate dal tg Bom Dia Brasil della tv O Globo: “In un paese in cui i componenti di un’organizzazione criminale che ha rubato miliardi a un’impresa di patrimonio nazionale sono a casa per decisione del Tribunale supremo federale – ha scritto il giudice – non posso giustificare la detenzione di chi, proporzionalmente, ha causato un male minore alla società, anche se si tratta di un male molto grave”. Con tanti saluti alla presunzione di innocenza.
Il magistrato titolare della operação Lava Jato si chiama Sérgio Moro, ha 42 anni, è esperto in reati finanziari. L’avvocato Alberto Zacharias Toron dice di lui: “Estorce confessioni e delazioni. Chi collabora è liberato. Chi non collabora è condannato alla galera preventiva”. La sua inchiesta è ancora aperta, ma il Parlamento del suo stato di origine gli sta per concedere il titolo di cittadino illustre. E’ considerato il candidato naturale al seggio vacante nel Tribunale supremo. Qualche settimana fa il giudice Moro era a San Paolo per la presentazione di un libro alla Livraria Cultura, nella Avenida Paulista. Quasi non riusciva a entrare. Centinaia di persone in delirio da concerto rock, innalzavano cartelli col suo nome, indossavano magliette con la sua faccia e la scritta “fai giustizia”. Gli hanno lanciato fiori bianchi, gli hanno cantato l’inno nazionale, c’è gente che ha rischiato di finire calpestata pur di toccarlo. Scene simili non si sono viste nemmeno ai tempi dell’attesa della sentenza del Tribunale supremo sulle mazzette agli alleati del Pt. Il Supremo emise a novembre del 2012 24 condanne. Sopravvissuto alquanto malconcio allo scandalo, riconfermata per una manciata di voti Dilma alla presidenza, con inflazione e disoccupazione in aumento, il Pt si trova ora nel caos Petrobras. L’inchiesta è cominciata prima delle presidenziali di ottobre. La formazione del governo e le nomine dei ministri sono state cadenzate dalle fughe di notizie sull’inchiesta.
[**Video_box_2**]Tutto ciò avviene nel mezzo di una situazione economica difficile, in piena fase di deindustrializzazione. L’entusiasmo degli ex poveri per il riscatto sociale vissuto negli ultimi dieci anni si è affievolito. L’illusione di milioni di persone di poter finalmente vivere da classe media sta svanendo di fronte alle rate da pagare, ai servizi scadenti. Per salvare la pelle il Pt conta su Lula. Tutto pronto per lanciare la sua candidatura al Planalto per il 2018. Sempre che l’inchiesta non lo faccia fuori prima. Ma per gli oppositori brasiliani, un’opposizione tosta, roba messa su da Fernando Henrique Cardoso, mica dal primo che passa, non sarebbe meglio vincere sull’eterno nemico, il detestato presidente-operaio, senza farsi servire prima la sua testa dai giudici? Lui, alla fine, li ha sempre sconfitti sul campo.