La versione del generale
Nell’ultima settimana dell’agosto 2013 l’Amministrazione Obama è davanti a un dilemma terribile. Tredici mesi prima il presidente ha detto che l’uso massiccio di armi chimiche contro i civili da parte del regime siriano è “la linea rossa” che non può essere attraversata, il gesto che scatenerà un intervento militare americano. Nelle ore prima dell’alba del 21 agosto 2013, dopo mesi di attacchi chimici minori, il governo siriano usa sul serio il gas nervino per un bombardamento massiccio contro la periferia della capitale Damasco, da tempo fuori dal controllo dell’esercito e in mano ai ribelli dell’opposizione, e il gas uccide centinaia di civili sorpresi nel sonno (il numero finale è di circa 1.400 morti). Il segretario di stato americano, John Kerry, va in televisione a spiegare che l’Amministrazione ha le prove che collegano il massacro al governo del presidente siriano Bashar el Assad. Il presidente Obama è riluttante a un intervento militare, ma è anche incastrato dalle sue stesse dichiarazioni dell’anno prima e rischia un danno grave alla credibilità del suo paese. Se non fa nulla, la deterrenza americana si sgonfia. Il Pentagono sposta le navi nel settore orientale del Mediterraneo, davanti alle coste siriane. Una campagna aerea “limitata” di bombardamenti sembra così imminente che la Francia di François Hollande, che si è schierata al fianco dell’America nell’operazione contro Assad, fermerà i suoi aerei quando ormai mancano poche ore al decollo per la prima missione. Il presidente siriano, che teme l’arrivo di almeno tre giorni di bombardamenti di precisione contro le sue basi (una punizione da cui può riprendersi in condizioni normali, ma c’è una guerra civile in corso), minaccia rappresaglie a sorpresa: “I nostri kamikaze colpiranno gli interessi americani in tutto il mondo” (sì, è lo stesso presidente che nel 2014 si dichiara alleato nella guerra al terrorismo e accusa gli americani di bombardare troppo poco le basi dello Stato islamico in Siria).
Il 31 agosto il canale israeliano Channel 2 trasmette un’intervista all’ex direttore dell’intelligence militare israeliana, il generale in congedo Amos Yadlin, che spiega che Assad ha soltanto una via d’uscita per cavarsi da quella situazione: un patto a tre con il suo sponsor, la Russia, e con l’America. Funziona così: lui compila l’inventario completo delle sue armi chimiche, compresa la lista delle basi militari segrete dove le custodisce, e poi consegna tutto l’arsenale chimico agli esperti delle Nazioni Unite. Le armi chimiche saranno distrutte. In cambio, non ci sarà la campagna di bombardamenti da parte di America e Francia – che i governi occidentali temono molto, perché c’è il rischio che avvantaggi i gruppi in guerra contro Assad, e tra quelli anche i fanatici islamisti di al Qaida e dello Stato islamico.
Le parole di Yadlin sembrano improbabili, ma sono preveggenti. Dieci giorni dopo, nel pomeriggio di lunedì 9 settembre, Kerry si fa sfuggire un commento in apparenza casuale alla fine di una conferenza stampa. Alla domanda “Cosa può fare il presidente Assad per evitare l’attacco americano?”, il segretario di stato risponde: “Dovrebbe consegnare fino all’ultimo grammo delle sue armi chimiche alla comunità internazionale entro questa settimana. Ma non credo che voglia, e che possa”. Nel giro di pochi minuti la risposta viene presa sul serio dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che propone di spostare l’arsenale chimico di Assad sotto il controllo della comunità internazionale. La macchina negoziale si mette in moto.
Il resto si sa, la guerra fu evitata (s’intende: quel pezzo di guerra, perché in Siria ce ne sono tante che s’incrociano fra loro). La settimana scorsa l’allora ministro israeliano dell’intelligence, Yuval Steinitz, ha confermato al New York Times che Israele propose l’idea per primo, e che però si tenne in seconda fila per non far sembrare che fosse un’idea israeliana (il che avrebbe fatto abortire tutto il negoziato, Assad non avrebbe potuto accettare, avrebbe perso la faccia davanti all’intero mondo arabo). Tutte le armi chimiche siriane furono caricate su navi per essere portate alla distruzione. Tutte? Forse.
Il generale Yadlin che per primo fece arrivare al pubblico la soluzione che fermò l’escalation del 2013 si occupa da decenni di sicurezza e strategia per Israele. Nel 1981 è stato uno degli otto piloti dell’operazione Tamuz – l’incursione aerea che distrusse il reattore nucleare Osirak di Saddam Hussein, a sud di Baghdad. Da direttore dei servizi segreti militari, ha avuto un ruolo nell’operazione che nel settembre 2007 ha distrutto un sito nucleare nell’est della Siria. Oggi è direttore di un centro di ricerca specializzato sugli stessi temi, l’Institute for National Security Studies (INSS), all’Università di Tel Aviv. A gennaio è stato presentato alle elezioni di Israele (tenute a marzo) come candidato al ministero della Difesa della coalizione di centro sinistra che ha sfidato il primo ministro Benjamin Netanyahu (avvertenza: sulle questioni di sicurezza nazionale in Israele c’è poca differenza tra gli schieramenti politici, la presenza dell’ex generale serviva come garanzia di una politica di sicurezza determinata). Chi conosce Yadlin dice che segue con attenzione estrema cosa sta succedendo in Siria, è la sua passione.
La guerra in Siria è un dilemma per Israele. Due avversari mortali sono impegnati a massacrarsi. Da una parte ci sono gli assadisti del partito Baath siriano, che sono alleati del gruppo Hezbollah e dell’Iran, i nemici sciiti, i più sofisticati. La loro ostilità verso Israele è un dato storico (due giorni fa sono uscite le foto degli interni della casa dell’ex ministro della Difesa siriano, ora disertore: e ci sono anche un paio di quadri autentici dipinti da Adolf Hitler. Così, tanto per dire che clima ideologico si respira a Damasco) e più va avanti la guerra civile più i tre alleati diventano dipendenti e legati tra loro. Dall’altra parte ci sono i gruppi armati sunniti, incluso lo Stato islamico (con le sue falangi di fanatici irrecuperabili) – che sono nemici mortali degli sciiti e però sullo stato di Israele la pensano allo stesso modo: deve essere distrutto. Chiediamo a Yadlin chi fra questi due fronti rappresenta la minaccia più pericolosa a lungo termine. “L’Iran e il suo alleato per procura Assad sono in questo momento la minaccia strategica più grande per Israele. E’ molto importante che la guerra in Siria non finisca con una vittoria per l’alleanza Teheran-Damasco-Hezbollah, una vittoria che rafforzerebbe i nemici di Israele nella regione, soprattutto Hezbollah ma anche Hamas. I sunniti islamisti radicali, che sono anche loro nemici di Israele, non si uniranno mai in coalizione con l’Iran e Hezbollah. Inoltre, lo Stato islamico per ora ha messo i suoi occhi su Damasco e non su Tiberiade. Tuttavia, sul lungo termine Israele di sicuro preferirebbe che la guerra civile siriana si concludesse con uno stato liberale e orientato a principi occidentali. Se lo Stato islamico riesce a rimpiazzare il regime di Assad e a solidificare il suo controllo sulla Siria fino a creare uno Stato islamico al confine di Israele, non sarà un buon risultato per Israele”.
Il presidente Assad aveva promesso di consegnare le sue scorte di armi chimiche alla comunità internazionale, ma ci sono notizie e fonti che dicono il contrario, potrebbe avere violato l’accordo. Come possiamo essere sicuri, considerato che la Siria è un teatro di guerra, dove le ispezioni sono difficili? Assad ha ancora armi chimiche? L’accordo ha funzionato – o stanno tutti facendo finta che abbia funzionato? “Grandi quantità di armi chimiche sono state distrutte senza dubbio, ma ci sono ancora segni di un uso locale e limitato di sostanze non convenzionali. Sebbene la sicurezza di Israele sia aumentata di molto ora che la forza militare della Siria è stata erosa così tanto, e sebbene le scorte di armi chimiche siano state ridotte in modo così significativo, se ci saranno di nuovo prove che Assad sta usando armi chimiche allora, secondo la visione strategica di Israele, sarà necessaria un’azione internazionale determinata: per fargli pagare un prezzo e per rafforzare le regole internazionali che ne proibiscono l’uso. Basandomi sui miei lunghi anni di familiarità con Bashar el Assad, non ho dubbi che ha messo da parte scorte di armi chimiche come ‘arma finale’ – dice Yadlin al Foglio – da usare se si sentirà messo con le spalle al muro, per assicurarsi la sopravvivenza o quella del regime, qualora si entrasse in una fase critica”.
Nell’agosto 2013, il politologo americano Edward Luttwak, molto ascoltato in Italia, scrisse un editoriale sul New York Times in cui diceva, in sostanza: “Lasciamo che si ammazzino tra loro”. Il pezzo era titolato: “In Siria, l’America vince se nessuna delle due parti vince”. Aveva ragione? Aveva torto? “C’è della logica in questa considerazione, l’interesse di Israele sta nel lasciare le parti impegnate nella guerra civile siriana a combattersi l’una con l’altra e a indebolirsi, senza farsi coinvolgere. Questa posizione va anche d’accordo con l’antico principio che guida la strategia di Israele, non cominciare mai una guerra se non per autodifesa. Tuttavia, il popolo ebraico non può prendere alla leggera le uccisioni di massa che stanno avvenendo al di là del confine, e ha un interesse umanitario a che questa guerra civile sia fatta finire. Insomma: la Siria di Assad è una parte fondamentale dell’asse radicale Iran-Siria-Hezbollah-Hamas. Israele non verserà una lacrima se quell’asse sarà spezzato. Qualsiasi regime sunnita estremista che salirà al potere non coopererà con l’Iran e Hezbollah”.
Ci sono crepe che appaiono dentro l’establishment di Damasco, che un tempo era considerato un monolite, non tradiva i movimenti al suo interno, presentava al mondo esterno una superficie impenetrabile. Per esempio, ad aprile c’è stato il decesso in ospedale del capo dell’intelligence nazionale, il generale Rustom Ghazale, pestato a morte dal capo di un’altra agenzia di intelligence . Cosa si può dire di queste fessure? Significano qualcosa? Non vogliono dire nulla? Anticipano in qualche modo un rovesciamento di potere interno (“internal regime change”) durante il quale una parte del regime siriano potrebbe espellere la famiglia Assad e provare a salvare quello che resta (e avere appoggio internazionale contro l’avanzata degli estremisti)? “I segnali di frattura interna non sono ancora abbastanza chiari per parlare di ‘internal regime change’. Il regime di Assad non cadrà fino a quando l’Iran manderà denaro, Hezbollah verserà il proprio sangue e la Russia darà armi e protezione diplomatica”, dice Yadlin al Foglio. Il ritmo delle sconfitte militari subite dal governo siriano sta accelerando, dalla provincia di Idlib alla città di pamira (a est) a Daraa (nel sud, vicino al Golan). Che tipo di scenario dobbiamo aspettarci in Siria: un conto alla rovescia, base espugnata dopo base espugnata, fino a quando non sarà raggiunto anche il palazzo presidenziale che affaccia su Damasco dal monte Qassioum? Un intervento militare di scala maggiore da parte dell’Iran, per proteggere i suoi interessi? Un cessate il fuoco e una partizione lungo le linee di divisione – che ancora non si conoscono – fra fedi religiose (aree sunnite, aree alawite, aree dei drusi…)? “Non dobbiamo aspettarci che la guerra civile siriana finisca in modo chiaro nel prossimo futuro. Il paese si è già frammentato in cantoni, in aree di controllo, e probabilmente resterà in questo stato fluido negli anni a venire. Le aree vitali per il regime probabilmente resteranno sotto il suo controllo fino a quando la Siria avrà l’appoggio di Iran e Russia, ma è anche probabile che non riuscirà a riprendere il controllo del paese nel prossimo futuro”.
Cosa sta succedendo sulle alture del Golan, al confine fra Israele e la Siria? Israele ha fatto un accordo con i ribelli locali, come giudicare questa cooperazione tacita? L’esercito israeliano sta ignorando la presenza di Jabhat al Nusra (il gruppo siriano di al Qaida, anch’esso in quell’area)? “La politica di Israele che regola gli interventi segue una serie di principi: rispondere al fuoco soltanto quando un gruppo o un esercito qualsiasi ti spara, prevenire attività terroristiche e non permettere trasferimenti di armi avanzate dalla Siria a Hezbollah”. Risposta laconica, ma la situazione sul Golan è indecifrabile per tutti e sarà da seguire con attenzione nelle prossime settimane. La comunità drusa siriana teme di essere accerchiata dai gruppi islamisti e di rischiare la vita. Il governo di Israele sta valutando le opzioni: permettere ai drusi di attraversare il confine e di salvarsi; oppure intervenire al di là del confine, in Siria, in caso di emergenza (quindi se ci fosse un rischio genocidio a pochi chilometri dal confine). La questione è considerata molto delicata e il governo di Gerusalemme per ora non ha annunciato una linea definitiva. E intanto ieri alcuni drusi hanno attaccato un’ambulanza israeliana, dal lato israeliano del confine, perché stava trasportando un siriano ferito – che loro accusavano senza prove di essere un combattente dei gruppi islamisti. L’area del Golan è stata più o meno risparmiata dalla violenza che in questi quattro anni di guerra ha devastato altre regioni della Siria, ma la tregua relativa potrebbe essere alla fine.
L’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’italiano Staffan de Mistura, propone i cosiddetti “freeze”, i congelamenti, tregue molto locali tra il regime e i gruppi armati: è una strategia che può funzionare, e un giorno porterà forse a un accordo di pace più ampio – oppure no? “Le fazioni che combattono in Siria sono molto frammentate e difficilmente accetteranno l’autorità di un qualsiasi accordo sponsorizzato o negoziato dalle Nazioni Unite. Per portare la guerra civile in Siria a una conclusione definitiva ci vorrebbe un intervento più diretto, come i boots on the ground, quindi un’operazione con truppe di terra”.
[**Video_box_2**]Lo Stato islamico è sia in Siria, a nord est di Israele, sia nella penisola del Sinai (e anche dentro la Striscia di Gaza, in piccole quantità), a sud di Israele. Israele vede una cooperazione strategica tra i due gruppi, quello principale e l’affiliato in Egitto? Vede uno scambio significativo di appoggio materiale e di ordini? In breve: Abu Bakr al Baghdadi o comunque i capi militari attorno a lui stanno comandando anche le operazioni giorno per giorno nel Sinai egiziano? “I sostenitori dello Stato islamico in tutto il mondo condividono l’ideologia e l’affinità con il marchio originale. Nella maggioranza dei casi, questi gruppi condividono molto poco in termini di aiuto materiale, informazioni e di cooperazione tattica”.
L’ultima domanda è sul presidente siriano Bashar el Assad e sul suo ruolo in futuro. Da più parti si chiede una collaborazione strategica con il governo siriano, visto come il minore dei mali nella guerra al terrorismo e contro lo Stato islamico. Un sostenitore di questa linea è per esempio l’ex ambasciatore americano in Iraq ai tempi della guerra, Ryan Crocker, e anche in Italia c’è chi appoggia questa linea, perché Assad garantisce molto più di suoi nemici la protezione delle minoranze religiose. Chi è contro questa linea ricorda che negli anni della guerra in Iraq proprio Assad appoggiava per ragioni sue lo Stato islamico in Iraq – quello nato nell’ottobre 2006 e poi diventato lo Stato islamico di adesso, chiamato Isis. Possiamo fidarci oggi dell’apparato di sicurezza di Assad e trattarlo come un prezioso alleato contro Al Baghdadi e il suo Stato islamico – proprio come loro vorrebbero essere considerati dalla comunità internazionale? Non hanno troppa familiarità con gli stessi cattivi soggetti dei “bei vecchi tempi” (gli anni della guerra americana in Iraq, 2003-2011) che adesso dovrebbero eliminare una volta per tutte? “Assad non può essere visto come un alleato contro lo Stato islamico ma dovrebbe essere visto come un dittatore che lotta per mantenere la presa sul potere ammazzando la sua gente – dice l’ex direttore dell’intelligence militare israeliana – Assad può sostenere di essere un grande alleato contro il terrorismo, ma ha portato il suo paese a essere un paria e uno sponsor del terrore e di attività anti occidentali, ed è un partner chiave di Hezbollah e dell’Iran. Inoltre, vale la pena notare che in passato Assad appoggiava i jihadisti mandati dalla Siria in Iraq per lanciare attacchi terroristici contro le forze americane, jihadisti che oggi si fanno chiamare Isis. La bandiera dello Stato islamico nasconde oggi alcuni ex elementi del Baath che fanno parte del gruppo, e anche Assad è un baathista”.