Il potere di una bandiera
New York. Più che un boicottaggio commerciale è stato un esorcismo collettivo, un’epurazione rituale del simbolo che ha seminato idee razziste nella testa del ventunenne Dylann Roof, il quale ha distribuito morte in una chiesa afroamericana di Charleston, South Carolina. Walmart, eBay, Sears, infine Amazon e tutti i grandi retailer americani hanno eliminato dagli scaffali reali e virtuali la bandiera confederata e tutto il merchandising a essa collegato al termine di un monologo nazionale travestito da dibattito intorno alla bandiera di guerra del sud e agli oscuri significati che evoca. Anzi, i significati sono chiarissimi: schiavitù, segregazione, razzismo, superiorità della razza bianca, Jim Crow, Ku Kluk Klan, linciaggi con le torce, croci infuocate nella notte. Ha avuto più fortuna la vecchia bandiera della Rhodesia, altra ossessione suprematista di Roof ben esibita nel suo inquietante album fotografico, ancora acquistabile presso i portali che hanno picchiato duro soltanto sulla bandiera di Jefferson Davis e del generale Lee. Dopo un rapido ragionamento tattico, il partito repubblicano, storicamente attento a non alienare l’elettorato del sud che in quella bandiera vede simboleggiato un pezzo della sua identità culturale, e non necessariamente un segno di sopraffazione a sfondo razziale, ha preso posizione per la rimozione del vessillo da qualunque edificio pubblico.
La governatrice dello stato, Nikki Haley, ha dettato il passo con la sua decisione, rendendo politicamente impraticabile qualunque distinguo o ragionato dissenso. Perfino il senatore Lindsey Graham, una specie di incarnazione dello spirito della South Carolina, s’è attenuto scrupolosamente agli ordini di scuderia: “Spero che rimuovendo la bandiera possiamo fare un altro passo avanti verso la riconciliazione, è un segno che la South Carolina sta facendo passi avanti”. Il libertario Rand Paul ha detto che quella bandiera “è inevitabilmente un simbolo della schiavitù” e ne ha chiesto la rimozione da qualunque contesto pubblico. Variazioni sul tema sono state espresse all’unisono dai candidati repubblicani alla presidenza e dai politici del sud, per censurare dallo spazio del dibattito pubblico il vessillo che Roof teneva orgogliosamente fra le mani nelle fotografie, reperite online assieme al delirante manifesto razzista che ha avuto l’effetto di riaprire una ferita americana mai completamente rimarginata. In altre immagini, lo stragista della South Carolina bruciava al fuoco di un barbecue l’odiata Star-Spangled Banner, simbolo dell’unione nordista (per la verità voluta fortemente anche da molti leader del sud), e in tutta risposta sui social si è diffusa in modo virale la moda di bruciare la bandiera confederata e di documentare i risultati. La sinistra non aveva bisogno di nuovi argomenti per aggredire l’identità sudista. La strage di Charleston è stato il casus belli in un conflitto carsico che occasionalmente affiora in superficie. La bandiera è stata per decenni sul suolo del Campidoglio della South Carolina, generando soltanto occasionali scaramucce e conflitti politici a livello locale, più o meno quanti ne può generare un busto di Lenin esposto in piazza a Cavriago (Reggio Emilia). Con il suo tipico lirismo civico il più influente e riflessivo polemista afroamericano in circolazione, Ta Nehisi Coates, ha chiesto l’immediata eliminazione della bandiera, e lo stesso ha fatto il più importante attivista dei diritti civili del momento, il ceo di Apple Tim Cook, bianchissimo cresciuto negli anni della segregazione in Alabama, quindi perfettamente titolato a emettere sentenze sulla polemica. Il livello più superficiale della disputa è quello politico. I repubblicani hanno abbandonato senza riserve un pezzo di elettorato che s’identifica con l’ethos sudista, promuovendo di fatto la perfetta sovrapponibilità concettuale fra la bandiera e la tragica epica razzista del sud.
Chiunque espone, usa o s’identifica con quel simbolo è automaticamente un propalatore della supremazia bianca e un Dylann Roof in potenza. Questo è il messaggio sottinteso. Rush Limbaugh, imbonitore radiofonico della destra, profetizza che questa conclusione frettolosa dei repubblicani non sarà senza conseguenze: “Per la sinistra quella bandiera è il simbolo di tutto ciò che non va non solo nella South Carolina, ma anche in North Carolina, nel Mississippi, in Georgia, Alabama eccetera. E questo è il vero obiettivo. E per questo i repubblicani fanno tutti questi sforzi per essere concilianti, per compiacere, e anche se credono di fare la cosa giusta non è mai abbastanza, non è mai fatta in modo genuino, non è mai veramente accettata. Molto raramente i repubblicani riescono a raccogliere successi politici concedendo qualcosa alle pretese dei loro avversari”. In questo senso, va sottolineato che i repubblicani hanno condotto la partita con un metodo molto simile, se non identico, a quello che i liberal usano in questi casi: identificare un colpevole e tentare di eliminarlo. Nelle stragi da arma da fuoco i colpevoli sono solitamente l’arma del delitto e le leggi che permettono di procurarsela con troppa facilità. Subito si preparano disegni di legge per il controllo delle armi da fuoco, mentre la destra dice che sono le persone a uccidere, non le pistole. La strage di Charleston è però una tragedia da polvere da sparo con movente razziale, categoria specifica della violenza americana, dunque l’obiettivo primario non può essere la semplice riduzione delle armi, quanto lo sradicamento delle radici dell’odio. Che si elimini la bandiera, dunque. Se però non sono le pistole, ma le persone, a uccidere, può forse uccidere una bandiera? Può incitare all’odio e alla persecuzione, può coagulare istinti e raggrumare ideologie, certo, ma è corretto stabilire una relazione certa, causale, fra l’abitudine sudista di esporre una bandiera e la carneficina di Charleston? Contrariamente a quanto fanno normalmente quando si parla d’armi, i repubblicani hanno risposto in modo affermativo: l’arma ideologica di questa strage va epurata dalla società.
[**Video_box_2**]Il secondo livello della polemica è storico e culturale, è il livello in cui la società stabilisce (e di conseguenza punisce, ove necessario) che cosa esattamente significano i simboli. E qui grande è la confusione sotto il cielo. Un dettaglio tanto per rendere l’idea: a livello popolare questa è diventata la polemica sulla bandiera confederata, ma il vessillo in questione non è nemmeno quello confederato, è quello dell’esercito della Virginia, dal quale proveniva il generale Lee. Quella bandiera è diventata un simbolo generico, un catalizzatore, una sentina di tutte le cose brutte che provengono dal sud degli Stati Uniti, ha perso la sua specificità in un processo di semplificazione dove il simbolo di una cultura complessa e stratificata s’identifica inesorabilmente con lo schiavismo e la superiorità dell’uomo bianco. Anche se non tutti i sudisti erano proprietari di schiavi. Anche se la guerra di secessione non era soltanto una questione fra schiavisti e abolizionisti (il nord è diventato abolizionista quando ha capito che non era poi così facile vincere la guerra, non prima). Anche se non tutti i Dixie che la espongono sottoscriverebbero le idee di Dylann Roof. Anche se quegli innocenti scavezzacollo dei fratelli Duke della contea di Hazzard ce l’avevano disegnata sul tettuccio della macchina, dove la bella Daisy stava lascivamente sdraiata come una playmate sudista.