Il disastroso accordo con l'Iran spiegato dagli alleati di Obama
New York. Il Washington Institute for Near East Policy è un rispettato think tank della capitale che si occupa della politica americana in medio oriente, e nella sua squadra di esperti conta molti ex funzionari della sicurezza, senza distinzione di appartenenza politica. Mercoledì l’istituto ha recapitato alla Casa Bianca e al dipartimento di stato una lettera aperta estremamente critica sugli obiettivi dell’Amministrazione nei negoziati nucleari con l’Iran, che si avvicinano alla scadenza di martedì prossimo. Fra i firmatari spiccano i nomi di cinque ex funzionari dell’Amministrazione Obama, affiancati da un gruppo di falchi dell’Amministrazione Bush, fra i quali c’è anche il generale David Petraeus. “Molti di noi avrebbero preferito un accordo più forte”, recita il testo, ricordando ciò che ormai dovrebbe essere chiaro anche agli osservatori più distratti: “L’accordo non impedirà all’Iran di ottenere armi nucleari. Non impone lo smantellamento delle infrastrutture per l’arricchimento. Le ridurrà soltanto per i prossimi dieci o quindici anni. E impone al regime trasparenza e ispezioni con lo scopo di dissuaderlo dalla produzione della Bomba”. Inoltre, l’accordo “non costituisce una vera strategia verso l’Iran”, perché “non cita il sostegno iraniano a organizzazioni terroristiche, i suoi interventi in Iraq, Siria, Libano e Yemen, il suo arsenale missilistico o l’oppressione del suo stesso popolo”.
E’, insomma, un accordo in tono minore che ambisce al più a tamponare o ritardare una parte del problema che l’Iran costituisce per l’America e per l’occidente. Il dettaglio più importante di questa lettera, pubblicata per alimentare il dibattito e suonare alcuni campanelli d’allarme in vista della scadenza dei negoziati, martedì, è che non si limita a esprimere una posizione diversa da quella della Casa Bianca. Sostiene piuttosto che l’accordo così come si sta delineando non passa nemmeno gli standard fissati dal governo stesso per qualificare un “buon accordo”. Quindi invita il presidente e il segretario di stato a “non trattare la scadenza del 30 giugno come ‘inviolabile’ e a rimanere al tavolo delle trattative fino a quando non sarà raggiunto un buon accordo”. Che significa un accordo che impone ispezioni severe anche oltre il periodo di inattività nucleare stabilito, che minaccia ritorsioni militari in caso di violazioni, un accordo che non lascia svanire istantaneamente il sistema di sanzioni alla firma e impone un rigido meccanismo di reintroduzione qualora i patti non vengano rispettati. Un accordo, insomma, che impedisca all’Iran di arrivare alla Bomba, non che chiede gentilmente agli ayatollah di ritardare le operazioni nucleari. Trovare un compromesso per liberarsi delle sanzioni è innanzitutto nell’interesse dell’Iran, dice la lettera, dunque Washington dovrebbe avere fra le mani la leva vantaggiosa per portare la controparte ad accettare le sue condizioni.
[**Video_box_2**]Negli ultimi mesi l’Amministrazione Obama ha dato però l’impressione di essere estremamente ansiosa di arrivare a un deal da esibire come trofeo politico, concedendo così spazio di manovra all’interlocutore. Non soltanto la straegia va corretta, suggeriscono gli esperti, ma anche la tattica va migliorata, evitando di essere in balìa delle intemperanze e delle ciclotimie tipiche del regime. Giusto l’altro giorno l’ayatollah Khamenei ha detto che non permetterà a nessun ispettore straniero di visitare i siti militari, condizione che invece appariva implicita nel preaccordo firmato ad aprile. La presenza fra i firmatari dell’appello di alcuni ex consiglieri di Obama e di esperti di sicurezza affiliati al Partito democratico, fra cui il negoziatore Dennis Ross, rende il documento particolarmente spinoso per la Casa Bianca, che non può declassare la ragionata contestazione a protesta di falchi neoconservatori, quelli che s’appiglierebbero a qualunque scusa per screditare Obama. E fra i critici di questo negoziato con ragioni simili a quelle esposte dal think tank si potrebbe nascondere anche Hillary, che ha iniziato i dialoghi con l’Iran da segretario di stato salvo poi trovarsi a disagio quando ha visto come il governo li ha impostati.