Le parole d'odio nelle piazze americane e la logica sovrumana del perdono
New York. E’ stata Nadine Collier a pronunciare per prima la parola perdono. “Ti perdono e ho pietà della tua anima”, ha detto a Dylann Roof, il ragazzo ottuso di spazzatura razzista che le ha ammazzato la madre nella chiesa Emanuel A.M.E. di Charleston. A lei si è unita Felicia Sanders, che in quella chiesa ha perso un figlio. Le voci misericordiose dei famigliari delle vittime sono diventate un coro, innegabilmente angelico, una “forma sovrumana di forza e pietà”, come l’ha chiamata il direttore del New Yorker, David Remnick. Uno spettacolo inusuale in quel momento, purtroppo codificato, della vita pubblica americana che è il post strage, dove si elabora il lutto, si semina nuovo odio o ci si affanna per emendare qualche legge che impedirà, si spera, che l’orrore si ripeta. I famigliari di Charleston invece hanno preso la via del perdono, strada rivoluzionaria in un frangente in cui fra ritiri della bandiera confederata, recrudescenze di razzismo, tensioni sociali che mettono Charleston nella lunga lista di nomi universalmente noti, con Ferguson, Staten Island, Cleveland, Baltimora e tutti gli altri, ci si avvicina rapidi al momento dell’esplosione.
Il perdono è l’opposto logico dell’orrore fanatico da supremazia bianca di un ragazzo che ha nostalgia della schiavitù e delle plantation, ma è pure l’opposto di quello che si è sentito nella piazza di Charleston da parte di alcuni che stanno dalla parte delle vittime. Malik Zulu Shabazz ha rovesciato le parole delle famiglie colpite dalla tragedia, offrendo argomenti per una rivoluzione di segno opposto: “Siamo venuti per cambiare ordine. Noi non perdoniamo nessuno”. Shabazz è diventato una presenza costante nelle piazze americane infiammate dalla questione razziale. Ha fatto sentire la sua voce a Ferguson e a Baltimora, ma è a Charleston che ha portato la retorica della vendetta contro i bianchi a un nuovo livello. Lo ha fatto invocando Denmark Vesey, uno schiavo che aveva pianificato una rivolta contro i padroni e che ha contribuito a fondare la chiesa afroamericana colpita da Roof. “Completiamo la sua missione, uccidiamo gli schiavisti”, ha detto alla folla. E ancora: “Denmark Vesey voleva ucciderli tutti e tutte le loro maledette famiglie. Siamo a corto di Denmark Vesey. Abbiamo bisogno di gente come lui oggi”.
L’ex leader delle nuove Pantere nere, ora a capo dell’associazione Black Lawyers for Justice, ha una lunga storia di proclami antisemiti, teorie del complotto e incitamenti alla violenza. In una manifestazione del 2002 ha invitato i suoi seguaci a “uccidere tutti gli ebrei in Israele” e a “far saltare in aria i negozi dei sionisti”; ora incita alla punizione degli schiavisti che ancora popolano il sud, quelli della bandiera confederata e della supremazia dell’uomo bianco. Quando l’omicidio di Trayvon Martin in Florida ha riaperto per l’ennesima volta la ferita razziale americana, uno sciame di vecchi leader della comunità afroamericana, genere Al Sharpton, è accorso in piazza per abbrancare il timone delle manifestazioni e lavarsi via di dosso l’odore di naftalina. La cosa ha fatto storcere il naso a non pochi nella comunità, ma si trattava più che altro di operazioni di marketing ben congegnate per riconquistare l’autorevolezza perduta lungo la strada.
[**Video_box_2**]Con il passare del tempo si sono fatti avanti nella piazza i tipi più tosti e sinistri come Shabazz o Louis Farrakhan, il capo della Nation of islam, che in tutta risposta al fronte compatto e trasversale contro la bandiera confederata ha dichiarato che è piuttosto la bandiera a stelle e strisce quella da mettere fuori legge. Una serie di leader della comunità nera ha boicottato la sua manifestazione di Charleston, intitolata minacciosamente “Justice… or else!”: se giustizia non sarà fatta ci saranno ben altre conseguenze, sullo stile di Denmark Vesey. Shabazz e Farrakhan non cercano perdono né sono disposti ad accordarlo ai loro nemici, sono espliciti nel dichiarare che il loro scopo è l’esasperazione del conflitto che ribolle nel cuore dell’America. L’opposto di quella forma sovrumana di forza e pietà mostrata dalle famiglie delle vittime di Charleston.