Quel che l'Italia può fare per evitare il fallimento militare dell'egiziano Sisi
Roma. Abdel Fattah al Sisi ha fallito sul piano militare e rischia un più grave fallimento sul piano politico. Il sigillo sulla sconfitta subìta dalle sue Forze armate durante la battaglia del Sinai di mercoledì è non solo il sigillo nero del Califfato che per molte, troppe, ore ha sventolato sulla caserma della polizia di Sheikh Zuweid, ma anche la notizia di solida fonte egiziana: il Cairo si accinge a chiedere all’esercito di Israele di intervenire a difesa di Rafah, al Arish e Sheikh Zuweid. Il quadro è tanto grave da imporre ai governi europei – e in primis al governo italiano – il dovere di un forte intervento di sostegno, ma anche di correzione degli errori.
I fatti sono impietosi: a due anni dai primi attacchi jihadisti nel Sinai, le Forze armate egiziane (forti di 450 milaoperativi, più 450 mila logistici) si sono dimostrate inette nel difendere i due obbiettivi di sempre in una guerra in cui hanno perso ormai più di 500 militari. Refah, El Arish e Sheikh Zuweid sono circondate da terra brulla, se non desertica, in cui gli assalitori si vedono a occhio nudo, ore e ore prima dell’attacco. Eppure hanno subito, indifese, una decina di assalti l’una negli ultimi 30 mesi e quella specie di “offensiva del Tet” che lo Stato islamico ha proclamato per questo Ramadan, mercoledì ha sfondato su tutti i 22 obiettivi prescelti dagli jihadisti. Non basta: fonti egiziane attestano che gli assalitori hanno impiegato armi moderne ed efficienti – alcune parlano addirittura di carri armati – provenienti dall’arsenale libico. Ma tra il Sinai e la Libia c’è l’intero Egitto. Come è stato possibile attraversalo? Ancora: sempre fonti egiziane attendibili indicano che ai combattimenti hanno partecipato decine di miliziani del Jihad islamico fuoriusciti dai tunnel di Gaza. Ma come è possibile che vi siano ancora tunnel aperti sotto il valico di Rafah? La risposta a questi quesiti è brutalmente semplice: le Forze armate egiziane, finanziate con 1,2 miliardi l’anno da trentasei anni dagli Stati Uniti “per non combattere”, sono inaffidabili e inefficienti.
Questo quadro va valutato da Matteo Renzi e dai governi europei perché, in nome di una sana realpolitik, è ammissibile che chiudano più di un occhio sul palese “bonapartismo autoritario” di al Sisi. Al limite, potrebbero addirittura accettare – con sole proteste formali – che al Sisi mandi sulla forca, come ha annunciato dopo l’attentato al procuratore generale Hisham Barakat (altra sua umiliante sconfitta), qualche dirigente dei Fratelli musulmani tra i 1.000 che ha fatto condannare a morte. Ma tutto questo è tollerabile, forse anche indispensabile, solo a patto che poi al Sisi vinca, che sbaragli lo Stato islamico nel Sinai, che spacchi in due o tre pezzi i Fratelli musulmani. Insomma, che pacifichi l’Egitto.
Invece, a due anni dal 30 giugno 2013, il bilancio è opposto, tanto che il premier Ibrahim Mahlab ha ammesso sconfortato: “L’Egitto è in stato di guerra reale”. Al Sisi non si è preoccupato di recuperare il consenso delle tribù beduine del Sinai (emarginate e vessate dal suo regime come da quelli precedenti) in mezzo alle quali gli jihadisti “nuotano come pesci nell’acqua”. Non ha modernizzato le Forze armate, i cui generali badano essenzialmente a gestire (male e parassitariamente) il 30 per cento dell’economia (resort turistici inclusi), in cui gli ufficiali sono corrotti e non motivati e la truppa è costituita da soldati di leva mal addestrati e indolenti. Sul piano politico interno, al Sisi non ha voluto o saputo creare nuovi “corpi intermedi” che permettessero a lui e al suo regime – indubbiamente carismatici e popolarissimi – di interagire con una società complessa, dopo che quelli dell’era Mubarak (soprattutto gli ordini professionali) o si sono sbriciolati o sono stati conquistati dalla Fratellanza. Inoltre, ha cinicamente favorito la demente “strategia del martirio” indicata da Mohammed Badie e da Mohammed Morsi, senza mai tentare di offrire all’ala moderata della Fratellanza una ipotesi di dialogo, di mediazione. Infine, non ha riformato i servizi segreti, talmente inefficienti da non saper cogliere i segnali della battaglia tradizionale scatenata nel Sinai da una consistente forza armata jihadista e non hanno impedito il clamoroso attentato contro il procuratore generale Hishan Barakat, non difendendo l’uomo che aveva chiesto e ottenuto la pena di morte contro Mohammed Morsi e tutta la dirigenza dei Fratelli musulmani.
[**Video_box_2**]In questo contesto il governo italiano può intervenire in maniera solidale, ma con energia, su più piani. Può spendere il notevole prestigio che gode sia ad Ankara sia al Cairo per tentare una pur difficile mediazione tra Recep Tayyip Erdogan e al Sisi che punti a ottenere che il primo (cui l’Italia, tramite l’Eni, può offrire una mediazione sullo strategico gas di Cipro) favorisca l’emergere dell’ala moderata – minoritaria – dei Fratelli musulmani, ottenendo in cambio, dal secondo, una sua interlocuzione con gli islamisti moderati e l’abbandono della “politica della forca” nei confronti di Morsi e compagni (“Se c’è una sentenza di morte, che sia eseguita!”, ha detto con voce vibrata ai funerali di Barakat). Sempre in maniera soft e senza urtare sensibilità comprensibili, può offrire consiglieri militari ad alto livello per una riforma efficace delle Forze armate egiziane. Azione che dovrebbe dispiegare anche nei confronti del governo tunisino, addirittura arrivando a subordinare indispensabili aiuti economici a una riforma (anche con l’apporto dell’affidabile Marocco) di servizi segreti che si sono dimostrati – vedi il Bardo e Sousse – inefficienti al pari, se non più, dell’esercito egiziano.
La debolezza dei nuovi governi arabi, sommata all’incredibile scomparsa dalla scena degli Stati Uniti, apre all’Italia enormi spazi di intervento unilaterale nel Mediterraneo. Ma è urgente saperli sfruttare.