Altro che greculi. Il default di Atene prova il fallimento dell'euro
Il voto referendario in Grecia di domenica scorsa è un voto essenzialmente politico e, dopo Polonia (vittoria alle presidenziali dell’outsider nazionalista) e Danimarca (il movimento populista vince le elezioni politiche, diventa il secondo partito e si pone come architrave del governo), rappresenta, nel giro di 40 giorni, la terza sconfessione – la più sonora e drammatica – del progetto europeo di integrazione quale si è venuto configurando nei lunghi anni della crisi. Dal nord scandinavo (la Finlandia è al settimo anno di recessione, la ricchezza prodotta è scesa del 10 per cento) all’Europa centrale (l’Ungheria alza muri contro i migranti e dà ai partiti anti europei i 2/3 dei voti) fino alle scassate coste mediterranee, i popoli esprimono con forza crescente il proprio distacco da un modello di convivenza comune che distrugge ricchezza nella maggior parte degli stati, basa le decisioni fondamentali su rapporti di forza pesati in modi opachi e insidiosi, ha una legittimità democratica sempre più flebile.
E’ probabile che il referendum di domenica segni un punto di svolta nella costruzione europea: o si va verso un modello ancora più rigido che punisce ed emargina chi devia, rischiando però fratture interne pericolose (la Grecia è al centro di un triangolo formato da Ucraina, Siria e Libia), oppure si ripensa l’architettura dell’euro e dell’integrazione. In questo secondo caso occorre una riflessione lunga e attenta perché le alternative sono molte e molto diverse fra loro. In ciò la vicenda greca è cruciale: il caos prima e il voto poi dicono infatti molte verità non tanto sulla Grecia quanto sull’Unione. E sono verità amare: la Grecia da quasi 6 anni (dall’autunno 2009, quando l’allora premier greco George Papandreou svela che il bilancio pubblico è truccato e che il deficit reale supera il 15 per cento) è un test di laboratorio sul funzionamento dell’euro e i risultati costituiscono una smentita delle promesse politiche e dei princìpi operativi su cui l’esperimento dell’integrazione si basa.
Perché un test? La Grecia è uno stato piccolo (11 milioni di abitanti, meno di Lombardia e Trentino messi insieme), con un pil modesto (poco più di quello del Veneto), guidato – dal momento della crisi per i conti falsi fino a inizio 2015 – dai socialisti (Papandreou) o dai popolari (Antonis Samaras) che eseguivano senza contestare le prescrizioni delle famiglie politiche di riferimento (e quindi della Troika composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale). Situazione ideale per dimostrare l’efficacia del modello europeo: uno degli argomenti forti a favore della moneta unica non era forse la promessa che avrebbe favorito la progressiva convergenza delle economie che l’avessero adottata? I risultati sono noti: il pil crolla, le banche – con i depositi assottigliati dall’impoverimento collettivo e dalla paura – operano da tempo solo grazie alla liquidità trasferita dalla Bce, il debito pubblico triplica e da 100 miliardi cresce a 350 (quello privato segue una traiettoria simile), gli elettori cadono nella disperazione, lasciano i partiti filoeuropei e premiano gli oppositori anti sistema che finiscono di scassare l’economia.
Nel disastro sono almeno tre i princìpi di fondo della politica di integrazione che alla prova dei fatti trovano una smentita. Il primo è la preminenza degli impegni relativi al debito entro la gerarchia dei criteri che guidano l’azione politica degli stati aderenti all’euro. Già nel 2010 è evidente che l’economia greca – stagnante, debole nell’export, malconcia nell’assetto fiscale – non è in grado di ripagare i creditori che, fidando nella garanzia implicita della moneta unica, dal 2002 l’hanno innaffiata a cuor leggero di liquidità. Senza un taglio significativo del debito la Grecia non ha la minima chance di ripartire, ma è solo alla fine del 2011 che un piccolo pacchetto di 75 miliardi viene ristrutturato (scadenze più lunghe, tassi inferiori, una parte minore cancellata). Troppo poco, troppo tardi. In compenso scorrono a ondate i finanziamenti di cui però solo un 10 per cento abbondante rifluisce all’economia greca: la massima parte va a servizio del debito, anche se insostenibile, per dare modo e tempo ai creditori forti (banche straniere, soprattutto francesi e tedesche esposte per oltre 80 miliardi) di liberarsi del loro fardello. In sostanza, una partita di giro fra creditori che via Esm, un meccanismo dell’Eurozona con funzioni stabilizzanti, alla fine mette il debito a carico di istituzioni e governi (e quindi dei contribuenti). E’ un errore tecnico e una scelta politica: le banche fanno premio su uno stato membro perché sono francesi e tedesche, perché nella mente dei decisori vale ancora la scia di panico derivata dal crac di Lehman Brothers e infine perché lo impone l’ideologia ufficiale dell’Ue. Essendo un processo che si svolge fra entità complesse come gli stati e implicando un’enorme riduzione di potere quale la cessione della sovranità monetaria, l’adozione dell’euro richiede – così recita l’ortodossia – un cospicuo investimento di fiducia da parte degli stati che partecipano: comportamenti sleali, come rompere i patti (non pagando i debiti), dissolvono fiducia e integrazione.
Il punto è che di slealtà la politica Ue è lastricata. E qui tocchiamo il secondo principio dell’Eurozona che si rivela infondato: il processo che lega 19 stati con la moneta unica non si compie solo per l’opera di organi tecnici (Bce, Commissione), non è una sequenza di eventi governata da parametri e sconnessa dalla politica. Può accadere forse nei periodi felici, come quello compreso tra la nascita dell’euro e il fallimento di Lehman, anche se la gran quantità di credito rovesciata all’epoca sull’area fragile dell’Eurozona e poi rivelatasi eccessiva indica che il pilota automatico è sempre un azzardo; in ogni caso nei periodi duri la decisione strategica è ineliminabile e l’Eurozona, che non la prevede in forma organica, per scegliere si affida ai rapporti di forza tra i soggetti politici consolidati, ovvero gli stati. E qui, in nome dell’interesse nazionale, la slealtà domina. A Samaras, leader della sezione greca del Partito popolare, che nel 2013-’14 impone al bilancio una cura molto pesante e riesce a ottenere un piccolo avanzo primario, la Troika nega quella ristrutturazione del debito che gli aveva fatto balenare in cambio dei tagli (le elezioni anticipate e Tsipras arrivano anche per questo). Le banche salvate in anticipo, i rinvii continui per non mollare punti nazionali ritenuti essenziali, le operazioni condotte sottotraccia per indebolire o far saltare governi sgraditi in quanto ritenuti pericolosi per il formato attuale dell’euro sono tutti capitoli di questo dossier poco glorioso. Dove la politica non è regolata, vige il comando monocratico: per l’Eurozona ciò significa quel modello a taglia unica, export-led e orientato al surplus commerciale, che avvantaggia la Germania e fa patire gli altri stati. Risultato: la divergenza economica cresce, le opinioni pubbliche si dividono, sale il nazionalismo.
Il terzo punto che la crisi greca mette in discussione è la disciplina di bilancio: l’ideologia ufficiale la reputa pietra angolare di una crescita solida, le vicende delle economie mediterranee mostrano che, applicata in dosi sbagliate (come è capitato in Grecia), abbatte i consumi, lacera il tessuto produttivo e acuisce la recessione. I sette programmi di austerità imposti alla Grecia in cinque anni hanno prodotto alla fine avanzo primario, subito evaporato per il rigetto politico degli elettori, ma – come riconosce lo stesso Fmi – hanno dissestato l’economia e posto le premesse per ulteriori cali.
[**Video_box_2**]Primato della disciplina di bilancio e cogenza assoluta degli impegni sul debito sono gli ingredienti base nell’economia dell’Eurozona. Molti ormai hanno chiaro che ciò porta alla scomposizione dell’Unione e vedono come unico rimedio per ridare linfa all’integrazione un ruolo più forte (e formalizzato) della politica. Tuttavia lo sviluppo di una forma di unione politica che affianchi e completi quella monetaria e bancaria presuppone ulteriori cessioni di sovranità da parte degli stati. E’ una via che diverge dal vissuto dei popoli europei: in una situazione di paura per mutamenti a largo raggio percepiti come minacciosi lo stato nazionale è l’istituzione che oggi concentra i sentimenti di appartenenza e costituisce il naturale campo di riferimento per la vita sociale; disseccarla e debilitare ancora di più quella rappresentanza che garantisce ai cittadini una voce – pur flebile – durante una trasformazione che scuote e sconvolge, appare un azzardo destinato a costare molto caro. Non è l’epoca di piani arzigogolati messi insieme da organi non rappresentativi e posti in esecuzione senza consultare gli elettori. Dopo tanti disastri alle tecnocrazie occorre un bagno di umiltà: innovazioni politiche che modificano in profondità la vita dei popoli, come la moneta unica o le correzioni istituzionali in vista di una più stretta unione, hanno bisogno di un tagliando fatto nelle cabine elettorali. Passa per un nuovo patto con i milioni di elettori che hanno patito delusioni cocenti la via per ridare una prospettiva all’Europa. I precedenti però non sono incoraggianti: quando nel 2005 fu concesso a francesi e olandesi di votare su alcune modifiche ai trattati – chiamate, con un surplus di retorica, costituzionali – il responso degli elettori fu negativo: non se ne tenne gran conto, cambiò qualche etichetta e la macchina europeista proseguì quasi intatta. In quell’arroganza ci sono forse le premesse dei molti guai che vennero più tardi. Oggi trascurare un altro referendum, o sbagliarne l’interpretazione, sarebbe follia.
I conservatori inglesi