Libri e pallottole
Ha lanciato uno slogan accattivante: “Books, not bullets”. Due giorni fa Malala Yousafzai è tornata a Oslo, dove aveva ricevuto il Nobel per la Pace, per parlare ai leader mondiali. Ha detto che servono 39 miliardi di dollari l’anno per le sfide di alfabetizzazione. “Sembra un numero impossibile”, ha detto la ragazza e attivista scampata a un attentato dei talebani. “In realtà rappresenta quello che i governi spendono per le Forze armate in soli otto giorni. Voglio che i leader mondiali scelgano i libri, non i proiettili”. Malala è stata cooptata dagli istinti nannying dell’establishment occidentale. Per i liberal, Malala rappresenta l’archetipo della povera ragazza salvata dai barbari, il simbolo perfetto dell’esotismo degli oppressi. Così prima l’hanno portata alla Casa Bianca da Barack Obama e gli hanno fatto consegnare un messaggio: “I tuoi droni alimentano il terrorismo”. Come se i droni non fossero invece una risposta al jihad. Poi l’annuncio di Malala in mondovisione da Oslo che per battere il terrorismo islamico non serve uccidere i capi della guerra santa, serve istruirli, serve portare libri alla popolazione, alfabetizzarli. Malala ha poi ripetuto che l’arte e l’intrattenimento debbano veicolare “un messaggio”, una sorta di marxismo culturale che ci si aspetta da un burocrate delle Nazioni Unite, dove il padre, Ziauddin, è infatti consulente speciale per Global Education.
C’è molta ipocrisia nel modo in cui l’apparato della sinistra occidentale si è appropriato di Malala per farne una icona di emancipazione femminile. E’ stata presa di mira da islamisti contro cui gli Stati Uniti sono andati in guerra. Una guerra cui la sinistra si è sempre opposta. Ma cosa c’è di meglio che far attaccare l’apparato militare occidentale da una ragazza musulmana con hijab, questo simbolo della misoginia islamica la cui forma più estrema è la tendenza dei talebani, quelli che hanno cercato di porre fine alla vita stessa di Malala? Come se non bastasse, la Nobel ha appena donato 50 mila dollari alle scuole dell’Onu a Gaza, senza neppure chiedere in cambio che la smettessero di ospitare piste di lancio di missili iraniani diretti contro Israele.
[**Video_box_2**]Gli studenti universitari in Afghanistan erano quattromila nel 2004. Oggi sono 120 mila, un quarto donne. E’ stato possibile grazie a una guerra. Lo ha appena scritto anche Newsweek: “In città come Herat e Kabul ci sono donne tassiste. L’Afghanistan ha rapper femminili. Anche nei villaggi più remoti, la vita è cambiata per le donne”. Se far studiare o meno le bambine afghane e pachistane, se rispettare i diritti naturali e positivi delle donne di Kabul, è questa la differenza fra “noi” e “loro”. Per questo siamo andati in Afghanistan. Per questo Malala non torna più in Pakistan, ma continua la sua battaglia attorniata da ong a Londra. A Malala ha risposto Phyllis Chesler, celebre femminista americana: “Malala davvero crede che i libri possano fermare gli uomini che le hanno sparato? In linea di principio, l’educazione è fondamentale, ma richiede tempo, e bisogna prima aprire un varco per far arrivare i libri, per farli apprezzare più dell’apartheid di genere e del jihad, occorre un varco militare”. Vedremo cosa accadrà quando gli americani se ne andranno da Kabul portando via fucili e droni. Vedremo quante ragazzine come Malala potranno ancora iscriversi a scuola. Books and bullets.