Lista pazza dei candidati Usa
Sono ambiziosi o pazzotici, presidenziali o insulari, falchi o socialisteggianti, libertari o pragmatici, rampolli di dinastie politiche e intrattenitori da reality show, alla ricerca della Casa Bianca oppure soltanto di qualche titolo in prima pagina per dare lustro al proprio brand. Breve ricognizione dei quattordici candidati repubblicani e dei cinque democratici che finora si sono gettati nella corsa per le elezioni presidenziali americane del 2016.
REPUBBLICANI
Jeb Bush. Per la campagna è Jeb!, soltanto un nome proprio – una sigla per la verità: sono le iniziali di John Ellis Bush – e un punto esclamativo per sfuggire alla trappola del cognome. Il suo avversario più pericoloso è se stesso, la zavorra di cui vuole liberarsi è l’appartenenza a una dinastia poco amata o comunque troppo vista per avere un’altra chance. Il suo messaggio elettorale è uno soltanto: io sono diverso. Il fratello maggiore metodista, lui cattolico; i genitori legati all’élite del nord-est, lui alla Florida e alla moglie messicana incontrata quando insegnava inglese da quelle parti. Loro avvocati o maestri di business laureati a Harvard e Yale, lui specializzato in affari latinoamericani, materia per gente di sinistra che vuole salvare il mondo. E’ un realista e un moderato, Jeb, che vorrebbe frontiere più aperte e alla visione ideale della Freedom Agenda, con effetto domino della democrazia e doglie del medio oriente, oppone un’agenda basata sulla sicurezza e il compromesso con dittatori levantini che danno stabilità.
(media nei sondaggi: 15,4 per cento)
Ben Carson. Il primo chirurgo a separare due gemelli siamesi uniti dalla testa è anche l’unico candidato afroamericano in corsa. Negli ultimi anni è stato uno dei più vocianti critici della riforma sanitaria di Obama, che fa discendere direttamente da un principio enunciato da Lenin: “La sanità socializzata è la pietra angolare per costruire uno stato socialista”. Lenin non l’ha mai detto, ma la frase gli era stata già attribuita in un pamphlet degli anni Sessanta contro Harry Truman, che voleva espandere la copertura sanitaria. Non crede nell’evoluzionismo, difende il diritto al possesso di armi da fuoco, si batte contro i dettami del politicamente corretto e vorrebbe la flat tax. Il Southern Poverty Law Center lo ha inserito nella lista degli estremisti dopo che ha connesso l’omosessualità alla pedofilia. Ha inaugurato la campagna elettorale nella sua città, Detroit.
(media nei sondaggi: 10 per cento)
Chris Christie. La grande e grassa promessa del Partito repubblicano è finita in fondo alla lista dei sondaggi, dietro perfino a Donald Trump. Durante la sua ascesa nazionale, il governatore del New Jersey doveva coprirsi a destra dai compagni di partito che lo accusavano di essere un moderato. Poi è arrivato il “bridgegate”, scandalo politico locale cavalcato a rotta di collo dai media, anche se nessun tribunale ha mai accertato le sue responsabilità nel chiudere una corsia del Washington Bridge per punire il sindaco di una cittadina del Jersey che si rifiutava di sostenerlo alle elezioni. E’ finito nel mirino del New York Times, istituzione che ha il potere di distruggere carriere e così altri scandali minori si sono accumulati sulla sua già periclitante reputazione. Con il tipico fare outspoken del siculo-irlandese cresciuto a Newark ora pretende le scuse dai media. Slogan: “Telling It Like It Is”.
(media nei sondaggi: 3,6 per cento)
Ted Cruz. Si è autonominato campione dei “conservatori coraggiosi” per distinguersi dai conservatori pavidi dell’establishment. Vuole tutto, subito e senza compromessi. Chiede la revoca dell’Obamacare e dopo la sentenza della Corte suprema sulle nozze gay ha invitato i funzionari pubblici a rifiutarsi di emettere certificati di matrimonio. Il padre era un guerrigliero castrista poi passato dall’altra parte della barricata e finito nel business del petrolio. Ted è nato in Canada ed è cresciuto battista del sud, ma ha fatto il tipico percorso di studi dell’élite bianca del nordest: laurea a Princeton, scuola di legge ad Harvard. Il giurista Alan Dershowitz dice che “era lo studente più brillante dell’università”. Porta con naturalezza stivali da cowboy sotto abiti su misura di taglio europeo. Ha sposato Heidi, managing director di Goldman Sachs.
(media nei sondaggi: 4,8 per cento)
Carly Fiorina. Che la businesswoman che compare in tutte le classifiche dei peggiori ceo di tutti i tempi abbia racimolato quasi un milione e mezzo di dollari nella primissima fase della campagna è una notizia. Carly è l’unico volto femminile nella lunga lista dei candidati repubblicani. Non ha mai ricoperto un incarico pubblico, quando ha provato a correre per un posto al Senato nella sua California è stata umiliata da Barbara Boxer. Si è fatta strada con fortune alterne nel settore privato, arrivando ai vertici di Hewlett Packard. La caduta è stata rovinosa, ma lo stesso si presenta come il candidato pratico di chi fa girare l’economia. Sostiene le unioni civili e ha accettato senza fatica la sentenza della Corte suprema. Come i candidati di area libertaria, è a favore della depenalizzazione del consumo di droga.
(media nei sondaggi: 2 per cento)
Lindsey Graham. Il falco par excellence e compagno di mille battaglie di John McCain è “pronto per essere il commander in chief dal primo giorno della presidenza”. La sua campagna è un trionfo di patriottismo, camouflage e sfoggio di muscoli americani in giro per il mondo, conseguenza inevitabile di una carriera passata fra l’Air Force e i banchi del Senato a invocare una leadership forte e marziale degli Stati Uniti. Frase da ricordare: “Se fossi il presidente degli Stati Uniti e ti venisse in mente di unirti ad al Qaida o allo Stato islamico chiamerei un drone, non un avvocato”. Cheneyano su politica estera e sicurezza nazionale, diventa assai malleabile quando si tratta di ambiente, immigrazione e politiche economiche. Non ama il Tea Party e quelli che dividono il partito in libertari e mainstream. Il sentimento è reciproco.
(media nei sondaggi: 1,3 per cento)
Mike Huckabee. Il candidato della destra religiosa del sud si è rifiutato con argomenti teologici di accettare la sentenza della Corte suprema: “Le corti degli uomini non possono sospendere la definizione e la legge del matrimonio come non possono sospendere la legge di gravità”. Con il basso a tracolla e Chuck Norris che annuiva alle sue spalle, nel 2008 ha vinto a sorpresa le primarie dell’Iowa, inabissandosi poi nel corso della campagna, com’era facile prevedere. Alla fine Fox News lo ha reclutato fra i suoi opinionisti, e il ritmo radiofonico e pastorale lo ha aiutato a raggiungere un certo successo. Il suo giuramento “a Dio, alla Costituzione e alla famiglia” risuona chiaro e forte nella coscienza ferita dell’elettorato religioso, così come la lotta all’islam radicale. Le primarie sono un fratricida bellum omnium contra omnes, ma il suo avversario diretto è Rick Santorum.
(media nei sondaggi: 7,4 per cento)
Bobby Jindal. I democratici, dice, ci “faranno fare la fine della Grecia”. Quando Obama ha rilanciato la campagna contro lo Stato islamico spiegando che non sarà sconfitto dalle pistole, ma dal cambiamento “dei cuori e delle menti”, lui ha risposto: “Beh, però le pistole aiutano”. Il suo motto è “abbronzato, riposato e pronto”, un tocco di autoironia in una campagna seriosa, dato che Jindal è di origini indiane, e si vede. Dal 2008 è governatore della Louisiana, ma soltanto di recente è diventato un punto di riferimento della “culture war”. Prima era stato più che altro fedele alla sua vocazione di nerd della policy, votato allo studio di un sistema sanitario funzionante e compatibile con l’ethos conservatore. Si è convertito al cattolicesimo negli anni del liceo e ha rifiutato le lusinghe di Harvard e Yale per studiare al New College di Oxford, in Inghilterra.
(media nei sondaggi: 1,3 per cento)
George Pataki. Pragmatico come lo possono essere soltanto i repubblicani che hanno avuto successo nello stato di New York, Pataki vuole tagli fiscali con l’accetta e incentivi per chiunque faccia girare il mercato, da Wall Street ai casinò dei nativi americani. Tutto il resto è anarchia etica e progressismo. E’ a favore del matrimonio gay – anche se quand’era governatore di New York si è opposto, ma solo per rispetto dell’opinione della maggioranza dei membri del Congresso – e dell’aborto, perfettamente in linea con il filone del cattolicesimo liberal di tipo kennediano al quale aderisce. Parla qualche parola di ungherese, lascito della famiglia austroungarica emigrata in America agli inizi del 900. Per molti l’unico motivo per cui vale la pena ricordare il suo nome è che governava lo stato quando le Torri gemelle sono state abbattute.
(media nei sondaggi non pervenuta)
Rand Paul. Figlio di Ron, l’uomo che voleva abolire la Fed, e accidentalmente titolare del nome della filosofa dell’oggettivismo, l’oftalmologo del Kentucky occupa la casella libertaria nella griglia di partenza. Anticentralista per natura e minoritario per vocazione, Rand si è progressivamente spostato verso il centro dell’emiciclo conservatore per allargare il suo bacino di utenza. E così, mentre dice che i cittadini di uno stato che impone il 50 per cento di tasse sono “per metà schiavi e per metà liberi”, prende posizioni potabili sulla Fed e smussa gli angoli più acuti della sua ideologia anarcoide. Va bene l’individualismo spinto, ma c’è pur sempre un mondo religioso e tradizionalista da conquistare. Lo aspettavano al varco dopo la sentenza sul matrimonio gay, e dopo due giorni di silenzio ha parlato: “Benché non sia d’accordo con la definizione di matrimonio della Corte, credo che tutti gli americani abbiano diritto a un contratto matrimoniale”.
(media nei sondaggi: 7,6 per cento)
Rick Perry. Punta tutto sull’esperienza maturata in quindici anni al governo del Texas, stato che è diventato l’alternativa hipster e business-friendly alla California. Anche nel 2012 puntava tutto su quello, e la campagna è andata drammaticamente male: da orgoglioso sfidante è diventato un meme della rete con le sue gaffe e le amnesie in diretta televisiva. La sua carriera politica si divide nella fase senza occhiali e in quella con. Conservatore viscerale e anima sudista, è a suo agio quando si tratta di tagliare le tasse o di condurre adunate di preghiera negli stadi per contrastare la deriva del mondo secolarizzato. Al college è stato nel gruppo di cheerleader maschile della squadra di football. Ha 65 anni, venti in più di Jindal, Cruz e Rubio.
(media nei sondaggi: 3,8 per cento)
Marco Rubio. “A New American Century” è lo slogan che ha scelto per stimolare le zone erogene dei neoconservatori. Rubio vuole muscoli, sudore, strategia globale ed eliminazione dei nemici del mondo libero senza pietà. Così come senza pietà l’America dovrebbe essere contro Fidel Castro e il suo regime. Fra i candidati di destra Rubio non ha l’esclusiva sulla questione cubana, ma il suo radicamento in Florida lo rende simbolicamente più rilevante del collega Cruz quando si tratta di rappresentare l’indefettibile anticomunismo di generazioni di rifugiati cubani. Vuole una riforma dell’immigrazione orientata la merito e all’attrazione dei talenti, non basata sui ricongiungimenti famigliari, e disprezza in modo particolare l’aumento del salario minimo, fissazione obamiana che farà scappare all’estero posti di lavoro. Il suo brand è fatto solo di caratteri minuscoli.
(media nei sondaggi: 8,8 per cento)
Rick Santorum. Cattolico della Pennsylvania e idolo della culture war, Santorum si è distinto per essere durato molto più di quanto chiunque avesse osato prevedere nella tornata del 2012. Dice che il matrimonio omosessuale approvato in America avrà “profonde conseguenze” in tutto il mondo, e legge il processo di secolarizzazione della società con un certo fare apocalittico. E’ il bersaglio preferito lobby arcobaleno. Anni fa l’attivista Dan Savage ha lanciato un concorso per coniare una definizione della parola “santorum”. Ha vinto questa: “La mistura di lubrificante e materia fecale che talvolta deriva dal sesso anale”. Ha otto figli e l’ultima, Isabella, ha un grave disordine genetico. Un altro figlio, Gabriel, è nato alla 26esima settimana di gravidanza ed è morto due ore più tardi. La moglie Karen ha raccontato la sua storia nel libro “Letters to Gabriel”, con prefazione di Madre Teresa di Calcutta.
(media nei sondaggi: 2,3 per cento)
Donald Trump. Il problema non è tanto che nel discorso di lancio della campagna abbia detto che i clandestini messicani sono tutti “spacciatori e stupratori”, ma che non sia la cosa più grave nel prontuario trumpiano. Tutti i colleghi si sono dovuti dissociare e sui social sono comparse subito foto dei vestiti su misura di Trump made in Mexico. Che siano vere o frutto di photoshop poco importa: il mondo di Trump è un gigantesco reality show nel quale non ha senso domandarsi “ma starà facendo sul serio oppure gliel’hanno scritto gli autori?”. Il suo ciuffo rossiccio e i tormentoni del tipo “you’re fired!” fino a qualche anno fa gli conferivano per lo meno l’aria giullaresca dell’intrattenitore. Ora anche quella è venuta noia.
(media nei sondaggi: 6 per cento)
DEMOCRATICI
Lincoln Chafee. Nel giro di otto anni l’ex governatore del Rhode Island è passato da repubblicano ostracizzato dai suoi per eccessiva tiepidezza a democratico ostracizzato dai suoi per la stessa ragione. La sua conversione democratica è un’infiorescenza dell’obamismo: durante la campagna elettorale del 2008 ha deciso di diventare indipendente, quattro anni più tardi ha fatto il grande passo a sinistra. Del resto, era un pro choice sostenitore del matrimonio gay, antagonista della pena di morte, contrario alla guerra in Iraq, tifoso dei sindacati, avvocato dell’isolazionismo americano o almeno di un profondo disengagement, uno che in qualità di governatore è riuscito ad alienarsi chiunque per eccesso di moderazione e democristianeria. Sulle questioni fiscali è più conservatore. Ma nemmeno poi troppo.
(media nei sondaggi: 0 per cento)
Hillary Clinton. Come per Jeb, vale anche qui la regola del nome proprio, che dà un tono informale e dissocia dalla dinastia. I cronisti di tutto il pianeta la passano al setaccio da quand’era la first lady dell’Arkansas, una vita fa. Ora che è la donna più potente del mondo appare inutile affannarsi sullo studio meticoloso di piattaforme e programmi. E’ questione di tattica, di posizionamento del brand sugli scaffali degli americani, di cene di fundraising e messaggi evocativi, il destino politico si gioca fra le mail interne più che sulla posizione a proposito dell’area di libero scambio nel Pacifico. Per ridurre al minimo il rischio di una figura ingloriosa in stile 2008 ha raccolto 45 milioni di dollari dall’inizio della campagna e punta alla cifra finale di 2,5 miliardi e mezzo per bombardare gli “everyday american” con il suo nome e la sua faccia. Forse cerca la vittoria per sfinimento.
(media nei sondaggi: 62,8 per cento)
Bernie Sanders. Il candidato socialista e senza speranza è un grande classico del racconto elettorale americano. Il fatto è che nel momento di gloria della sinistra antagonista, quel particolare momento simboleggiato dal sindaco ultraliberal di New York che prende a calci il governatore liberal del suo stato in un’intervista al New York Times, Sanders sta avendo un’estate grandiosa, con sondaggi da record e un gruzzolo dal 15 milioni raccolti fra piccoli finanziatori online. E’ la Sanders-mania, e a Hillary non piace nemmeno un po’. Il senatore del Vermont è un campione indiscusso della lotta alle diseguaglianze economiche, dei diritti dei gay (il Vermont è stato apripista di unioni civili e matrimonio omosessuale), della riforma delle carceri, del controllo delle armi da fuoco. Vorrebbe fare dell’America un paradiso welfarista in stile scandinavo. Sulla sorveglianza dell’intelligence la pensa come Rand Paul.
(media nei sondaggi: 14,3 per cento)
Martin O’Malley. Lo hanno paragonato a Bill Clinton per le infinite ambizioni di potere e lo stile calcolatore e meticoloso; non muove un passo senza aver previsto le conseguenze e aver fatto un’accurata stima di costi e benefici. O’Malley è un prodotto tipico del Maryland democratico e cattolico, e il vescovo di Baltimore non l’ha presa bene quando lui ha dichiarato pubblicamente il suo sostegno ai matrimoni gay. Può vantarsi di essere stato, con risultati discreti, sindaco di Baltimore, ultima delle città-simbolo dello scontro razziale mai sopito. Dalla città è passato poi alla guida dello stato. Il ragionamento è chiaro: chi riesce ad amministrare una città del genere è qualificato per guidare il paese, mentre altri – vedi alla voce Hillary – non hanno mai amministrato nulla se non un posto al Senato ottenuto grazie al cognome e un ministero concesso per cortesia.
(media nei sondaggi: 1,3 per cento)
Jim Webb. Scrittore, veterano del Vietnam con medaglia al valore, senatore per un mandato soltanto, pessimo fundraiser, democratico scelto da Reagan come sottosegretario alla difesa, il 66enne Webb è ancora tutto testosterone e divisa mimetica. L’ex ufficiale del Pentagono Chase Untermeyer in un libro ha raccontato di quella volta in cui Webb ha quasi ucciso un motociclista sbattendogli ripetutamente la testa contro il marciapiede. Il ritratto che ne fa Untermeyer è quello di un uomo egocentrico e iracondo. Qualche anno fa un suo assistente è stato fermato mentre tentava di passare i controlli all’ingresso del Senato con la pistola di Webb addosso, carica. Quando gli hanno chiesto conto dell’accaduto l’allora senatore si è limitato a reiterare il suo sostegno al Secondo emendamento. Ha le stesse possibilità di vittoria di Donald Trump, simili a quelle che ha il cammello di infilarsi nella nota cruna.
(media nei sondaggi: 2,3 per cento)
I dati dei sondaggi sono la media stilata da RealClearPolitics aggiornata al 7 luglio.