Capitalismo morale
New York. C’è una ragione precisa per cui Arthur Brooks ha dedicato il suo ultimo libro al “cuore conservatore” e non soltanto alla mente, alle facoltà razionali scomponibili in dati e tabelle. La dottrina conservatrice di Brooks e il suo liberismo a sangue caldo è innanzitutto un inno morale, è uno sposalizio felice tra funzionalità e natura umana fatta a immagine e somiglianza di Dio. L’Adam
Smith della “Ricchezza delle nazioni” è lo stesso della “Teoria dei sentimenti morali” e l’uomo di cui parla è lo stesso che nel Vangelo di Matteo viene punito dal padrone per aver sotterrato il suo talento invece di investirlo per creare ulteriore ricchezza. Il capitalismo, insomma, ha a che fare con il compimento della natura umana, non è soltanto un sistema economico che funziona reggendosi sui pilastri immorali della sperequazione, dell’avidità, del tutti contro tutti.
In “The Conservative Heart: How to Build a Fairer, Happier, and More Prosperous America”, libro in uscita oggi negli Stati Uniti, l’eccentrico direttore dell’American Enterprise Institute scrive che questo aspetto basilare dell’identità conservatrice è stato sepolto sotto una coltre di materialismo, a tal punto che perfino gli stessi conservatori sono diventati incapaci di articolarne le virtù: “Il capitalismo ha salvato un paio di miliardi di persone, ma abbiamo trattato questo miracolo come un segreto di stato”, una grandiosa epica è stata nascosta per via della rappresentazione maligna e divisiva del capitale, quella che ha dato lustro ai Piketty e alle Elizabeth Warren. In un’intervista al Wall Street Journal, Brooks ha ricordato che quando era un bambino una persona su quattro viveva con meno di un dollaro al giorno, oggi “lo sviluppo dei commerci e l’economia globalizzata hanno fatto scendere il rapporto a uno su venti”. Il mercato, non la redistribuzione della ricchezza, è l’arma più potente contro la povertà. Già tre anni fa in un’intervista al Foglio l’economista che per dieci anni ha suonato il corno nell’orchestra di Barcellona prima di prendere una laurea per corrispondenza (alla faccia dell’élite di Washington e del suo impeccabile curriculum da Ivy League) diceva che la lotta alla povertà è una questione conservatrice che la destra ha sbadatamente lasciato in mano alla sinistra. Ora si tratta di riconquistarla.
Un paio di mesi fa ha parlato proprio di povertà in un panel alla Georgetown University. Gli altri ospiti erano il sociologo Robert Putnam e Barack Obama. Anche lì Brooks ha ribadito le virtù morali del capitalismo: “Abbiamo una tendenza a parlare dei poveri come ‘gli altri’, quando invece sono nostri fratelli e sorelle. Quando li consideri fratelli e sorelle, non puoi trattarli come pesi sociali da gestire”. Nella visione di Brooks l’uomo non è un fardello da portare ma una “risorsa da sviluppare” e questa impostazione porta un “approccio completamente differente al tema della lotta alla povertà”. Una nota di ottimismo antropologico risuona al fondo dei suoi ragionamenti, mentre “Obama guida il paese basandosi su pessimismo e divisione”. L’errore dei conservatori è stato accettare le premesse negative implicite nell’idea di uomo dei liberal, e questo “ha creato un duello fra opposti pessimismi”.
[**Video_box_2**] L’obiettivo è un salto di paradigma che superi la falsa dicotomia fra efficienza e moralità, non soltanto un piccolo sforzo cosmetico per sbiancare il cuore dei conservatori annerito dalla cattiva pubblicità. In un certo senso, Brooks è la testimonianza vivente delle possibilità di far fruttare i talenti che il capitalismo offre. I suoi genitori affettuosamente, ma con una punta di rimprovero, ancora chiamano la sua parentesi musicale in Spagna il suo “gap decade”, ma la cosa non gli ha impedito di reinvestire altrove i suoi talenti.