Alexis Tsipras (foto LaPresse)

Cari fan degli Stati Uniti d'Europa, come credervi ancora?

Franco Debenedetti
La Grecia non è uscita dall’euro, ma il prezzo che paga l’Europa è alto: in termini economici almeno a garantirlo ci sono dei “collateral”, titoli a garanzia in cambio di liquidità, non solo vaghe promesse. E il prezzo più alto l’Europa lo paga in termini di tensioni tra i paesi dell’Eurozona e in termini di identità nell’immaginario dei cittadini europei.

Adesso che il gioco di Tsipras e Varoufakis è stato visto, tutto appare chiaro: hanno puntato sul fatto che l’Eurozona non potesse accettare il Grexit; hanno anche provato a rovesciare il tavolo con il referendum; ma alla fine hanno dovuto scoprire le carte. E i debiti di gioco, tra gentiluomini, si pagano nelle 24 ore. Sbagliata la strategia, sbagliata la tattica: fare di tutto per irritare l’avversario, sperando che sia lui a prendere l’iniziativa di sbatterti fuori. La Grecia non è uscita dall’euro, ma il prezzo che paga l’Europa è alto: in termini economici almeno a garantirlo ci sono dei “collateral”, titoli a garanzia in cambio di liquidità, non solo vaghe promesse. Il prezzo più alto l’Europa lo paga in termini di tensioni tra i paesi dell’Eurozona, subisce il danno più grave in termini di identità nell’immaginario dei cittadini europei. Per la maggioranza dei quali questa, per l’Europa, è stata o una sconfitta o una vittoria pagata cara. E’ stato così? Da parte europea sono stati commessi errori? Che Syriza avrebbe giocato tutto sul ricatto, l’aveva scritto già da tre anni il neo ministro Tsakalotos, era il fuoco sotto il “Crogiuolo della resistenza”.

 

Contro i ricatti ci sono delle regole: la prima è che i ricatti si vedono, e così si è fatto. La seconda è di sminuire il presunto valore del bene: e invece si è fatto esattamente l’opposto. Per mesi a enfatizzare i costi di Grexit per l’Europa, non solo quelli economici, ma quelli sistemici, dati per certi, certissimi: la fine dell’euro. Era proprio così? C’erano solidi argomenti per sostenere che l’euro non solo non si sarebbe disfatto, ma che anzi si sarebbe rafforzato, e qualcuno lo ha anche sostenuto. Ma tant’è, ormai è acqua passata. Quella che non è passata è la voluttà dell’autolesionismo, ed è del tutto incomprensibile: cos’altro avrebbe dovuto fare l’Europa? Si è riuscito a convincere anche paesi più poveri della Grecia, o che hanno i loro problemi a far quadrare i conti (come noi), a dare risorse per la terza volta.

 

Le richieste greche sono state sostanzialmente accettate, si è solo chiesto che gli impegni di farne buon uso li prendesse il Parlamento. Ci si sarebbe dovuti fidare di chi ha cercato di ricattare e ora non ha più la fiducia neanche del suo stesso partito? I tempi sono stretti: ma chi ha perso tempo? E allora perché autoflagellarsi? I più convinti dei flagellanti sono quelli della “ever closer union”. Questa, come è noto, richiede un’ulteriore cessione di sovranità: ma a parte gli elementi dovuti alle circostanze (l’urgenza, il cambiamento in corsa della maggioranza, la traballante autorità di Tsipras) quello che viene richiesto alla Grecia altro non è che la cessione di sovranità necessaria per l’Unione fiscale (per quella politica servirebbe ancora ben altro). Se ne rendono conto i flagellanti della confraternita degli Stati Uniti d’Europa? Prima c’è stato l’errore di ingigantire il valore della posta del ricatto. Adesso si sta commettendo l’errore di ingigantire le conseguenze di come s’è presa la decisione, ci si straccia le vesti perché così si sarebbe allontanato, forse per sempre, il progetto degli Stati Uniti d’Europa. Ma mentre i pericoli di una Grexit non erano del tutto infondati, non c’è nulla a provare che quello degli Stati Uniti d’Europa sia un progetto realistico.

 

[**Video_box_2**]Dai referendum francesi e danesi alle divisioni tra nord e sud Europa emerse in questa occasione, dall’affievolirsi dell’euroentusiasmo perfino nei più eurofili dei paesi al peso politico acquisito dai tanti populismi, che ci sono motivi solidi per chiedersi se quello degli Stati Uniti d’Europa sia un’aspirazione dei popoli o un sogno da repubblica dei filosofi. Se i trasferimenti di risorse producono tensioni politiche all’interno di un paese che 150 di storia hanno provato a unire, non ci vuol molto a immaginare quali si creerebbero tra paesi che 400 anni di storia hanno diviso. E’ sorprendente che bersaglio della confraternita sia il paese più grande dell’Europa, e i princìpi, sociali ed economici, che quel paese ha elaborato in oltre mezzo secolo, e grazie ai quali si è risollevato, politicamente ed economicamente, dall’abisso in cui era caduto. Se i francesi si riconoscono in posizioni diverse dai tedeschi, e gli italiani dagli olandesi, è perché sono retti da statisti a cui manca la visione, incapaci di un colpo d’ala? Il paragone con gli Stati Uniti è sbagliato, è una metafora fuorviante: sono diverse le storie, la struttura socioeconomica – sarebbe bello se all’entusiasmo per il modello ne corrispondesse uno altrettanto forte per ciò su cui quel modello si regge, il mercato e i suoi valori – e sono diversi i meccanismi di formazione delle rappresentanze. L’elezione del presidente Stati Uniti occupa tutto lo spazio politico per più di un anno su quattro: da noi lo si vorrebbe emulare con l’elezione indiretta del presidente di un parlamento di Strasburgo, che quando viene votato registra il minimo di affluenze, dove si formano maggioranze in cui gli elettori non vedono rappresentate né le proprie identità politiche né i propri interessi. C’è molto che si può fare per rafforzare le ragioni di stare insieme in Europa, di migliorare l’efficienza, degli Stati e dell’Unione. Smettiamo di perdere il tempo, di danneggiare i rapporti tra di noi, inseguendo quello che per alcuni è un sogno, per altri un incubo: in ogni caso un miraggio.

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