Il fronte interno
New York. Com’era ovvio, i candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti hanno bastonato senza pietà l’accordo nucleare iraniano, “uno dei peggiori fallimenti diplomatici della storia americana” (Scott Walker), un “incubo per Israele”, “molto peggio di quanto potevo immaginare” (Lindsey Graham), una “minaccia alla nostra sicurezza” (Marco Rubio), uno scellerato patto con il diavolo per cui “pagheremo un prezzo pesante” (Jeb Bush). Tutti o quasi hanno promesso di polverizzare i termini dell’accordo se saranno eletti alla Casa Bianca il prossimo anno. Già meno ovvio l’endorsement convinto di Hillary Clinton, trapelato da incontri a porte semichiuse. Se è vero che l’ex segretario di stato ha attivamente lavorato per mettere le basi di una trattativa diplomatica con Teheran, altrettanto vero è che ha sempre fatto bella mostra di smarcarsi dai dettami della politica estera obamiana, aspirando con calcolata ritrosia al ruolo del falco di sinistra, erede più o meno legittimo della tradizione dell’internazionalismo liberal umiliato dalla logica della mano tesa.
I democratici della Camera che hanno assistito al plauso clintoniano fanno notare che ha messo l’accento innanzitutto sul contesto dell’accordo e sul lavorio paziente che ha portato alla firma, come a rivendicare almeno una parte del bottino politico. Più in generale, il controverso patto nucleare costringe avversari e alleati di Obama a prendere posizione sulla “dottrina Obama”, un oscuro magma di elementi spuri tenuti insieme dall’idea dei limiti della potenza americana, che non può gestire tutti gli scenari del mondo e dunque deve esercitarsi nell’arte del disengagement. Un disimpegno ragionato e accorto, così almeno lo vende Obama, che ieri riprendendo la formulazione classica di Reagan ha detto che è un patto basato “sulla verifica, non sulla fiducia”.
La Casa Bianca incassa sorridente le felicitazioni della maggioranza del suo partito – con l’eccezione di uno stormo di falchi irriducibili, capitanati dal senatore del New Jersey Robert Menendez, comprensibilmente preoccupato dal modo festante in cui Teheran ha accolto la notizia e dai minacciosi tweet della Guida suprema Khamenei – e riversa tutte le sue attenzioni sui democratici al Congresso, in particolare su Nancy Pelosi, che dallo scranno più alto del partito alla Camera dovrà guidare il delicato processo di approvazione dell’accordo da parte del Congresso.
Nell’altro ramo parlamentare l’uomo dei democratici è il potente e imbarazzato Chuck Schumer, finito nel fuoco incrociato perché il suo storico, profondo sostegno a Israele in questo caso mal s’accorda con gli ordini di scuderia del Partito democratico. Obama non può puntare su di lui per guidare la delicata transizione dalle firme viennesi ai corridoi legislativi di Washington. Non avendo rispettato la scadenza del 9 luglio per la firma, ora Capitol Hill ha sessanta giorni per rivedere il testo ed esprimere un voto. Se non ottiene la maggioranza Obama metterà il veto, e a quel punto si andrà a un secondo voto, nel quale è necessaria una maggioranza qualificata almeno in una delle due Camere per annullare la decisione presidenziale. Se i due terzi dei deputati o dei senatori votano contro il presidente, l’America è fuori dall’accordo che ha voluto e negoziato passo dopo passo.
[**Video_box_2**]E’ estremamente improbabile che vada a finire così. Già 145 deputati democratici hanno messo per iscritto il loro sostegno al negoziato, e basterebbero i loro voti per superare la soglia della tranquillità per Obama. Ma il presidente vorrebbe che non si arrivasse allo showdown sul suo veto dopo due mesi di stillicidio da parte dei repubblicani in solido con il governo di Netanyahu, l’Arabia Saudita e tutti gli oppositori arabi alla riapertura dei canali con l’Iran. Sarebbe politicamente deleterio se l’accordo concepito guardando alla legacy, al giudizio della storia, iniziasse con una sanguinosa guerra di trincea. Il clima da riscaldamento dei motori pre-elettorali rende inevitabile lo scontro, e per questo la Casa Bianca preferisce arruolare negoziatori e pontieri, non picchiatori con il tirapugni, per far passare con le arti della persuasione e dello scambio quello che potrebbe imporre con la forza inoppugnabile dei numeri, ma pagando un prezzo politico che vorrebbe evitare. E’ la dottrina Obama applicata al fronte interno.